giovedì, novembre 24, 2005

Dio e buddhismo.


Naturalmente sulle questioni che riguardano l'essenza della vita, sul divino, ognuno ha un'idea personale che collima con la sua sensibilità, evoluzione, intuizione, logica, eccetera. Sospetto che anche all'interno delle singole religioni - che rappresentano delle risposte 'collettive' alle grandi domande - ci sia una grande varietà di punti di vista individuali. Considero ciò un bene, perché ognuno deve potersi dare una risposta da solo su questi temi così importanti, e per farlo deve scavarsi dentro. I punti di vista sulla Realtà Ultima sono infiniti, perché questa è un "Sutra dagli infiniti significati", e ognuno elabora quello che gli serve. Sono d'accordo con chi dice che esistono tante religioni quanti sono gli individui, soprattutto quelli che si fanno domande e non accettano passivamentele risposte già pronte.
Il concetto di Dio si riferisce generalmente ad un aspetto 'personale' del divino, per lo più antropomorfo, cioè a somiglianza dell'uomo. Come se il piano divino fosse uno specchio e l'uomo, guardandovi dentro, vedesse sé stesso; quindi come se, in un certo senso, operasse una 'proiezione' di sé, del suo carattere, della sua cultura e anche dei suoi limiti. Tuttavia, pur ritirando la proiezione, credo che comunque rimanga qualcosa, una 'superficie riflettente' che è l'essenza della vita stessa. Molte religioni, soprattutto orientali, non hanno voluto speculare sulle caratteristiche di questo 'Qualcosa'. Per esempio il Taoismo. Anche il Buddhismo. Però hanno comunque dato un nome all'essenza percepita, indicandola parzialmente: Tao, cioè la Via, Dharma, la Legge. Le Upanishad usano spesso il termine 'Tat', cioè... 'Quello', rimarcandone così la non-definibilità. Forse sembrerà strano, ma perfino certe frange del misticismo ebraico abbandonano la 'personalizzazione' di Dio quando intendono indicare l'essenza più alta, profonda, nascosta, riferendosi ad essa come 'Esistenza negativa', cioè cui ci si può riferire solo con la negazione di quanto la mente riesce a concettualizzare. Per ciò che riguarda il famoso ateismo buddhista, non sono per niente d'accordo: non capisco come si possa anche solo affermare. Il Buddhismo, originario dell'India, non ha mai negato l'esistenza degli dei di quella cultura, assimilandoli pienamente. Al punto che persino nel Gohonzon giapponese abbiamo Bonten, che è Brahma. Chi è Brahma? Il Creatore. Nichiren Daishonin credeva negli dei indù e anche nelle divinità nipponiche, come Amaterasu - dea della Luce - e via dicendo. Se il Buddhismo fosse nato in occidente, oppure se fosse stato qui praticato già da centinaia di anni, probabilmente avremmo un oggetto di culto contenente il Dio della Bibbia, Gesù, Maria e qualche Santo. La rivoluzione del Buddha non sta nella negazione della divinità, ma nel riconoscere una Legge Mistica, misteriosa e imperscrutabile, di cui gli 'dei-persona' non sono che aspetti. Questa Legge più che impersonale, secondo me, sarebbe meglio definibile come sovra-personale. Stando al Sutra del Loto e alle filosofie derivate, poi, non possiamo definirla 'insenziente', perché essa sembra identificarsi con il Buddha Eterno, cioè con una sorta di Coscienza Cosmica. Sicuramente siamo lontani dal concetto di Dio come ci è stato proposto dalla nostra cultura, ma possono esserci anche delle affinità. Sicuramente ci sarebbe molto ancora da discuterne, ma concludo con un brano di Daisaku Ikeda che ho avuto la gradita sorpresa di leggere nel suo libro di dialoghi con Gorbaciov: "Ma l'uomo non può comprendere il senso della sua vita se prima non ha compreso il significato di Dio. Il senso di qualsiasi religione è ricordare all'uomo che esiste qualcosa che va al di là della sua vita terrena, che esiste unità fra la vita e la morte. Proprio i tormenti della coscienza ricordano all'uomo che esiste l'Eternità, un valore ben più alto e prezioso dell'effimero interesse egoistico. (Da "Le nostre vite si incontrano all'orizzonte" - Esperia, pag. 101). Cito anche un altro passo (stesso libro, stessa pagina): "Ritengo molto difficile che la morale disgiunta dalla religione possa esprimersi compiutamente. La morale senza una religione che spieghi il ruolo dell'uomo nell'universo è come un albero che non affonda le sue radici nella terra. In questo caso io attribuisco alla parola 'religione' un ampio significato, che non è legato ad una particolare confessione. La si può considerare un nucleo di valori universali che consentono di distinguere il bene dal male."
Non per nulla Ikeda è un maestro. E un maestro di pace.

mercoledì, novembre 23, 2005

Distinzioni.




Sembra che le distinzioni polari fra alto e basso, Cielo e Terra e simili, siano più antiche e profonde delle elaborazioni di certe religioni che vedono una netta separazione fra gli opposti, di solito prefigurati come bene e male. Per citare un esempio vicino, il termine utilizzato nel buddhismo di 'Illuminazione' si riferisce al sole e agli astri, mentre tradizionalmente l'oscurità è terrestre o sotterranea. Anche 'Risveglio' allude all'aprire gli occhi (luce, sole) e sollevarsi (cielo, sole) da una posizione di raccoglimento, riposo, sonno, possibile soltanto abbandonando il corpo al suolo (terra). Naturalmente mi riferisco a questi concetti nel senso simbolico, analogico, non necessariamente per come sono stati integrati nelle varie religioni. E' molto interessante, comunque, riscontrarne la presenza in tutte le culture antiche, anche se con gradazioni e modalità differenti. Una delle più belle e profonde elaborazioni di queste simbologie è quella taoista, con lo yin-yang e il Tao, quest'ultimo integrazione e trascendimento delle opposizioni polari. Anche il buddhismo, particolarmente quello Mahayana, non propone una separazione fra i termini delle opposizioni polari, ma una loro fusione, un equilibrio. Così il Buddha non esaspera la tendenza ascetica, ma trova una mediazione con quella mondana. La divinità nel senso buddhista, se così si può dire, è più simile ad un Assoluto, presente sia in Cielo che in Terra e in ogni manifestazione della vita.

Ascesi.


Credo che qualsiasi pratica religiosa o filosofica che si rispetti dovrebbe portare ad una evoluzione dell'atteggiamento e della visione. Questa evoluzione, almeno dal punto di vista del linguaggio e della simbologia del profondo, può essere connessa con una ascesa, un andare verso l'alto, un disgrossare, un raffinare, un ampliare. Questo perché, direi archetipicamente, ogni avanzamento spirituale può essere collegato ad un innalzamento verticale, ad un avvicinamento a ciò-che-sta-in-alto, al Cielo, e ad un distacco dall'elemento terrestre. Forse perché l'uomo stesso fonda la sua particolarità evolutiva sul raggiungimento della posizione eretta, sul farsi tramite, asse del mondo, fra la dimensione materica, misurabile, tangibile della Terra e quella immateriale, inafferrabile, non misurabile, del Cielo. Avendo definito i desideri come attaccamenti, cioè come legami con ciò che è inferiore, insomma come zavorra, siamo portati a considerare che una vera elevazione debba poter recidere questi legami: d'altra parte notiamo come, di solito, gli asceti, coloro che risalgono la via dello sviluppo interiore e il fiume della vita, tendono a lasciarsi dietro volontariamente ciò che abbassa, che distrae, che tira indietro, ciò che è forza gravitazionale. Così, ad esempio, in India, nell'antichità, c'erano diversi gradi dell'abbandono della dimensione terrestre ed esteriore: un uomo, dopo le prime fasi di crescita e apprendimento (brahmacarya), formava una famiglia e diventava padre (grihastha), con tutte le responsabilità connesse. Dopo di ciò, sentendo un richiamo interiore, poteva ritirarsi nella foresta o in una qualche forma di isolamento dalla vita familiare e comunitaria (vanaprastha), pur conservando parzialmente alcuni dei rapporti precedenti, per esempio con la moglie o con altri. Infine, procedendo in questo cammino ascetico del distacco, diveniva un mendicante errante, solitario, senza più legami di alcun genere (sannyasa). Possiamo notare come Shakyamuni abbia percorso un cammino abbastanza tradizionale, da questo punto di vista, per le concezioni della società brahmanica. Tuttavia mi sembra che ci siano alcune differenze sostanziali. Esse sono soprattutto contenute in quell'episodio nel quale - asceta della foresta - decide di accettare del cibo da una fanciulla, di nutrirsi. In quel momento egli è un traditore delle aspettative della società brahmanica! Fino a quel momento no: pur contravvenendo ai desideri paterni e rinunciando al suo lignaggio regale, in realtà stava seguendo una via socialmente codificata e ammissibile, anzi rispettabile. Accettare del cibo in quella fase, oltretutto da una donna, significava invece rinunciare al cammino di elevazione, significava diventare un paria, un fuori-schema. Non aveva senso: che intendeva fare, ridare spazio ai desideri terreni, agli appagamenti del corpo? Era stato vinto dal demone? Tradiva la sua missione ormai conclamata? Ridiventava preda dei 'klesha'? Quindi, direi, la vera novità del Buddha non è tanto l'abbandono della casa paterna, ma l'abbandono dell'ascesi. E' la Via di Mezzo. Anche il suo successivo essere mendicante è completamente diverso dal consueto 'sannyasin': in un certo qual modo egli rimane nel mondo, conduce una vita di relazione in situazioni diverse e articolate, dialoga, viaggia non per isolarsi, quanto per incontrare. E lo fa insieme ad una sempre più vasta comunità di compagni di viaggio. Anzi, il suo atteggiamento viene aspramente criticato dal suo 'Giuda' personale, Devadatta, che ne considera i comportamenti come troppo poco rigorosi. Proprio come il Giuda evangelico, che non sopporta di veder sprecare costosi unguenti per Gesù. Il Buddha contravviene alle regole brahmaniche proprio come Gesù, che mangia in casa dei pubblicani, parla con le donne e i bambini, con le prostitute, talvolta mangia carne e non osserva il Sabbath.
Forse l'ascesi vera e propria oggi non è proponibile, ma non dovrebbe esserci almeno un freno agli attaccamenti? Inoltre andrebbero sottolineate le contraddizioni consumistiche della nostra cultura che sembra vedere nella soddisfazione senza limiti delle esigenze materiali la vera felicità, la vera libertà. Un mio carissimo amico diceva che ogni lavoratore, ogni operatore, ha diritto alla sua mercede, ma non alla sua... Mercedes! Sottolineo nuovamente, però, che nel buddhismo non mi sembra debba esserci un accantonamento del corpo e dei desideri, e che il benessere debba esserci a tutti i livelli, senza rifiuti né sensi di colpa: la nostra esistenza è un tutto completo, tutto è rispettabile. Certo, questo non deve risolversi in cecità e sfruttamento e sicuramente non solo i buddhisti ma l'intero nostro mondo dovrebbe saper trovare una soluzione a problemi sempre più pressanti: deve sicuramente prodursi una 'rivoluzione culturale'. Anzi, mi sta bene il termine buddhista di rivoluzione umana coniato dal presidente della Soka Gakkai, Daisaku Ikeda, in cui bisogna tener conto del rigore come della compassione e dare valore a tutte le motivazioni dell'uomo. In questo termine è contenuto anche il concetto che ognuno di noi, in prima persona, alzandosi da solo, debba individualmente conoscere sé stesso con tutte le sue contraddizioni, cercando simultaneamente di agire e di muoversi in questo mondo, collaborando con gli altri e con la vita senza isolarsi in un dogmatico - e probabilmente sterile - ascetismo.

Benefici e demoni.


Il beneficio supremo, lo scopo della pratica buddhista, è la famosa Illuminazione che potremmo ancora una volta ipotizzare come uno stato di integrazione con la vita, di fusione degli opposti, di compenetrazione consapevole microcosmo-macrocosmo, eccetera. Credo che il superamento delle illusioni e il raggiungimento dell'Illuminazione siano, in fondo, contemporanei aspetti di un'unica medaglia. Come tutte le aspirazioni umane, però, anche questo eroico traguardo può essere occultato da fraintendimenti, visioni diverse e contraddittorie, meccanismi condizionanti. Per esempio, recitando Daimoku per ore - come può accadere utilizzando anche altre tecniche meditative - è possibile che si entri in uno stato euforico, di esaltazione. Una litania mantrica ripetuta per molto tempo, invece che accrescere la capacità di osservare la propria mente e conoscere meglio sé stessi, potrebbe condurre ad una sorta di auto-ipnosi: il mantra è una medicina e, come tutti i farmaci, può avere le sue controindicazioni. Lo dice anche Nichiren quando scrive che se si recita Nam Myoho Renge Kyo credendo che la Legge Mistica sia qualcosa di esteriore, quindi senza scavarsi dentro, si sta seguendo soltanto un 'insegnamento provvisorio' oppure una 'dolorosa austerità'. Come accorgersi che non si sta cadendo in uno di questi stati illusori? Qui torna comoda la 'prova concreta' del cosiddetto beneficio: se la nostra vita - grazie alla pratica buddhista - mostra un miglioramento nei rapporti con gli altri, significa che non ci stiamo chiudendo, che stiamo diventando più benevolenti, che stiamo superando le nostre preclusioni. Se diveniamo più attivi nei settori concreti della vita, significa che non ci stiamo isolando dal mondo. Se riusciamo ad affrontare difficoltà che prima ci avrebbero schiacciato, significa che stiamo crescendo in forza, determinazione, speranza. Se accade qualcosa di imprevisto che ci aiuta in maniera inaspettata e miracolosa, significa che riusciamo ad attivare gli elementi mistici dell'esistenza e a migliorare il nostro karma oscuro. Se questi riscontri non ci fossero, dovremmo interrogarci: credendo di seguire il cammino della Liberazione, ci stiamo forse chiudendo, entrando nell'arroganza, isolando, esaltando? Guardando cosa accade concretamente nella nostra vita di tutti i giorni abbiamo una sorta di cartina di tornasole dell'equilibrio interiore raggiunto. D'altro canto, come è accaduto a Shakyamuni, andando a fondo in sé stessi, accade anche di affrontare ostacoli, forze 'demoniache', 'fantasmi della mente'. Anzi, è giocoforza incontrare delle resistenze al nostro sviluppo: il percorso dell'Illuminazione è individuale ed è sempre originale, nel senso che si segue sempre - nell'ambito della propria vita - un sentiero non tracciato, come fossimo esploratori e ci facessimo largo nella foresta. Anche facendo psicanalisi si incontrano resistenze: la struttura profonda della mente e dell'io, gli attaccamenti, reagiscono, chiudono, mascherano, addirittura aggrediscono. Tanto più nel buddhismo, dove si vuole rivoluzionare l'intera vita e non si ritiene fondata la distinzione fra interno ed esterno, individuo e ambiente: le citate resistenze si manifesteranno quindi non soltanto nella psiche, ma anche nelle situazioni contingenti, negli eventi cosiddetti 'oggettivi', nelle persone incontrate. Anche qui, comunque, praticando il buddhismo, sarà presente il beneficio di intravvedere un messaggio sottostante gli eventi negativi, la richiesta di cambiamento sottintesa, la possibilità di reintegrazioni più profonde e più vaste nell'ambito del nostro modo di essere e di rapportarci. Se non vedessimo il negativo, come potremmo trasmutarlo? E il negativo è sempre profondamente connaturato con il nostro karma, quindi non è mai per caso.

Nichiren Daishonin.


Nichiren parla di sé in modi molto differenziati, a seconda dell'interlocutore cui si rivolge, a seconda se stia scrivendo una lettera o un trattato e, presumibilmente, in accordo con i vari periodi della sua vita. Abbiamo, allora, un Nichiren che - forse - si identifica con Jogyo, la 'guida dei Bodhisattva della Terra', oppure si sente il 'Devoto del Sutra del Loto' in attesa della manifestazione dello stesso Jogyo. Altre volte egli si riconosce come un discepolo appartenente ad uno dei gradi inferiori della via dello studio. Poi è lo Shramana del Giappone, oppure è ne è il Maestro, Sovrano e Genitore. Dice di essere una persona comune di casta inferiore, piccolo, brutto e di comprensione limitata. Afferma di essersi illuminato da solo, oppure di aver raggiunto la buddhità, ma prega l'interlocutore di tenere l'informazione segreta. Talvolta, invece, vorrebbe raggiungere finalmente l'illuminazione in un giorno futuro, e spera - oppure si dice certo - di incontrare Shakyamuni sul Picco dell'Aquila. In certi trattati si descrive metaforicamente come un saggio solitario, sereno e pieno di comprensione, oppure come un nobile ospite. Non sa quali siano le sue passate incarnazioni, ma pensa di aver assistito alla Cerimonia dell'Aria. Certe volte dubita di sé, non sa se la sua ricerca abbia colto nel segno, altre volte sente che non si è inventato nulla, che ciò che ha capito è più grande di lui, che lo trascende. Cita i Sutra e ricerca nei testi canonici del buddhismo per dimostrare il suo punto di vista, ma sarebbe disposto a cambiare opinione qualora qualcuno gliene argomentasse la ragione in modo convincente e fondato. E' felice nei momenti più difficili e disgraziati perché è sostenuto dalla fede, ma talvolta piange e si commuove pensando al suo destino, a quello dei suoi genitori, degli amici. Scrivendo lettere accorate e piene di affetto a volte identifica i suoi stessi discepoli - o comunque le persone che gli sono vicine e lo aiutano - con dei Buddha o Bodhisattva. Vede in essi Shakyamuni redivivo, oppure la reincarnazione di suo padre e di sua madre. Qualche volta dice ad altri che essi stessi sono la Torre Preziosa e, quindi, conseguentemente, dico io, l'incarnazione della Legge o del Buddha Originario. Chi è Nichiren? Sicuramente un uomo solo, un rivoluzionario, forse un sognatore che combatte con caparbietà contro i mulini a vento del suo tempo. La sua forza è la fede in ciò che ritiene di aver trovato negli insegnamenti buddhisti. Egli stesso frequentemente non sa bene perché deve avere il ruolo che ha, e allora trova conferme nei trattati e nei Sutra: è convinto che la sua epoca abbia in sé un'urgenza, un bisogno di rinnovamento, di un recupero, e vede solo in sé stesso colui che possiede la chiave. Questo lo sconcerta un pò: non doveva apparire il Bodhisattva Jogyo? Invece egli è solo. Allora forse è lui stesso Jogyo! Però è strano, egli osserva, perché la sua pratica è imperfetta, discontinua, la sua voce è flebile. Però, si dice, poiché sono perseguitato a causa del Sutra del Loto, io dedico ad esso la mia intera vita. Quindi lo vivo. Quindi lo incarno, lo rappresento. E lo fanno anche i miei discepoli. Come vogliamo considerare quest'uomo sofferente e caparbio, felice della sua fede eppure in costante rielaborazione delle sue convinzioni? Per sua stessa ammissione non ha virtù eroiche particolari, al di là del coraggio di affrontare l'opposizione alle sue idee. Non ha poteri o veggenze speciali. Non vede nel passato o nel futuro, ma riflette e deduce. In breve è un uomo normale ma, per certi versi, è un Maestro: ha una visione ideale, indica qualcosa che ancor oggi - pur essendo stata rielaborata più volte durante i sette secoli che ci separano da lui - sembra avere un senso profondo. Francamente non sembra un Bodhisattva o un Buddha per come normalmente vengono rappresentati. Non ha il sorriso serafico e l'impassibilità enigmatica e super-umana delle statue buddiste. Appare perfino un pò fissato, caparbio, un Savonarola alla maniera giapponese. Eppure la sua fissità potrebbe essere interpretata come l'ostinazione di chi propone l'essenziale, oltre i riti, oltre le speculazioni e il potere delle religioni: la semplice dedizione alla Legge Universale e ad un Buddha che non è soltanto Shakyamuni, ma è coesistente con la Vita...
In definitiva, poi, com'è davvero un Buddha? Come agisce, come si comporta e respira? Forse potrebbe essere una persona insospettata, il nostro vicino, senza i caratteri fantastici e immaginifici dell'idealità. E un Buddha, se lo è davvero, non è forse - per ciò stesso - il Buddha Originario? Non si identifica in lui, se non altro perché ha raggiunto quello stato di coscienza dove tutto è Uno e dove la Legge Universale si fonde con la vita individuale?

lunedì, novembre 14, 2005

Il viaggio.



Viaggiando si esce fuori dalla propria condizione abituale, si cambiano panorami e situazioni. Ogni ricerca è anche così. Possono esservi disagi, difficoltà, strade più o meno ostacolate. Talvolta si può rimpiangere quanto s’è lasciato, ma andando avanti ci si avvicina alla meta. Esiste, poi, la meta? C’è un luogo dove la diversità esterna possa essere segnale della trasformazione interna? Certamente il viaggio, se vissuto pienamente, trasmuta: dobbiamo adattarci al mutamento delle condizioni che incontriamo, disporci all’osservazione, dobbiamo – per così dire – uscire da noi stessi per imparare. Quand’anche ritornassimo, dopo un certo tempo, al punto di partenza, quel punto non sarebbe più uguale a prima, soprattutto perché siamo mutati noi. Nel senso più alto proseguire nel cammino, sulla via, conduce oltre: usciamo dai quattro cattivi sentieri e sperimentiamo i nobili sentieri dell’Illuminazione. I percorsi inferiori naturalmente non vengono rifiutati, fanno sempre parte di noi, della crescita, dell’esperienza, del mondo in cui viviamo, degli altri, dell’esistente. Cambia soltanto la nostra percezione di essi. I cattivi sentieri, in definitiva, sono l’essenza stessa della compassione e delle Paramita, le pratiche del Bodhisattva. Senza cattivi sentieri la consapevolezza del Bodhisattva - e anche del Budda - non avrebbe fondamento. Forse un’importante differenza fra la buddità e l’illusione è che la prima riconosce il Samsara come interno a sé, parte di sé, la seconda è sicura che sia esterno. La prima lo abbraccia, offre ad esso una prospettiva evolutiva, un senso, e dunque gli assegna il giusto posto; la seconda – sia accettandolo che rifiutandolo - lo disconosce come parte di sé, non lo comprende e, quindi, ne è dominata.

Nuovo anno cinese.


Trovo il capodanno estremo-orientale molto equilibrato: non si basa soltanto sul ciclo solare, ma anche su quello lunare, in perfetta armonia yin-yang. Inoltre pone l’inizio dell’anno e anche della primavera a metà strada fra il solstizio invernale e l’equinozio primaverile, a partire dalla luna nuova più vicina a quel momento, e questo inizio si percepisce concretamente: qualcosa nell’aria, le prime gemme, un’apertura. La celebrazione del capodanno è connessa con il rinnovamento, linea di demarcazione fra passato e futuro e sintonia con il presente. Direi che il valore più importante legato all’inizio del nuovo anno coincide con il principio buddista di honnin-myo, “da adesso in poi”, cioè il principio della “vera causa”: rapportandosi con le profondità della vita la coscienza può operare un rinnovamento che prescinde dal passato e, in un certo qual modo, anche dal futuro, dando un nuovo impulso e una nuova direzione al ciclo karmico. Non sempre crediamo di poter cambiare qualcosa, tanto meno di poter rivoluzionare radicalmente la nostra esistenza. Troppo ‘buon senso’ ce lo impedisce, ma il buon senso si basa sul tempo, sul conosciuto. Il ciclo samsarico è il tempo, mentre l’Illuminazione costituisce un oltrepassamento di detto ciclo, una sfida impossibile e paradossale: quella di non limitarsi al meccanismo grigio della ripetizione, del reiterare, ma riuscire a concepire nuovi e più luminosi punti di vista, comportamenti, destini. Si tratta di libertà. La libertà di vivere nella limitazione e nell’incertezza senza esserne sopraffatti, con saggezza, conservando la purezza dell’energia vitale e scoprendo un’intima felicità. Quella che deriva dalla mistica consapevolezza del nostro vero io e dell’eternità della vita.