martedì, dicembre 27, 2005

Unità e diversità.


Secondo me, in una scelta come quella religiosa, non si può prescindere in ogni caso dall'individuo, né si può pretendere che l'individuo si uniformi e scelga secondo i valori del gruppo, fossero anche questi ultimi i valori più nobili e altruistici: questo perché il campo religioso dovrebbe idealmente essere l'espressione veritiera dell'intimo di ognuno, dove ogni etica esterna e comunitaria è comunque una sovrastruttura rispetto alla reale crescita coscienziale dell'individuo. Naturalmente non sto dicendo che il comportamento sociale non sia importante e non sia esso stesso una componente della vita e perfino dell'individualità: il buddhismo, infatti, ci insegna che la vita è relazione. Però l'immagine più bella della struttura profonda dell'Universo, forse addirittura dell'Illuminazione, è prefigurata nel concetto di Itai Doshin: l'unità nella diversità, la fusione onnicomprensiva che contiene lo sviluppo delle singole individualità, l'armonia fondamentale nella differenziazione, l'essere fusi-ma-non-confusi, uniti ma non massificati, insomma il prisma dalle mille sfaccettature, ognuna di esse essenziale all'interezza del tutto. Anzi, dovrebbe essere così: che quanto più si estende la propria capacità di Illuminazione, la conoscenza di sé e del Sé, tanto più le componenti dell'individuo - anche quelle 'personalistiche', quelle psichiche, così come quelle sociali, quelle concrete, fisiche, situazionali - si integrino nell'esprimere l'armonia raggiunta. Da dove partire? Sempre dalle 'cause interne', cioè dall'intimo, cioè dalla libera presa di coscienza individuale (non sociale o moralistica). Si parte da una decisione indipendente, da un 'alzarsi da soli'. Quali sono i benefici? Essi sono essenzialmente legati alla manifestazione in noi dei Tre Corpi del Buddha: il Dharmakaya, il Corpo della Legge, che ci dà una sintonia con l'aspetto mistico, profondo, dell'esistenza; il Sambhogakaya, che porta l'armonia sul piano interiore, psichico; il Nirmanakaya, la manifestazione concreta e visibile, 'fisica', sociale, 'terrestre'. In un certo senso questi benefici sono anche le prove della validità del proprio percorso, e possono coincidere con le famose 'tre prove': la dottrinaria, la teorica e la concreta. Perché Nichiren considera la prova concreta come la più importante? Sembra una contraddizione, perché la prova concreta è anche la più 'esteriore', quindi apparentemente la meno essenziale; però bisogna considerare che il mondo esterno è proprio la nostra 'cartina di tornasole', il banco di prova, il luogo in cui ci scontriamo con la diversità, con le avversità, con il non-io, con l'altro-da-noi. Poiché il mondo esterno è inoltre - per legge karmica - lo specchio delle nostre contraddizioni interne, un miglioramento su questo piano ci da un'indicazione importante sulla nostra condizione interiore. Se anche ritenessimo di aver 'capito tutto', di essere degli Illuminati, dei Santi o dei Bodhisattva, ma non riuscissimo a rapportarci positivamente con l'ambiente esterno - naturale o sociale - o anche con il nostro stesso corpo fisico, dovremmo comunque rimeditare la nostra posizione. Se non lo facessimo con umiltà ed attenzione la vita e la legge karmica, comunque, ci costringerebbero prima o poi a farlo.

Propagazione.



A mio parere esiste una sfumatura di significato differente, anche molto differente, fra le parole 'propagazione' e 'propaganda'. Mi sembra che il problema delle organizzazioni religiose stia in gran parte qui: aver frainteso questo significato, aver confuso la propagazione con la propaganda. La propagazione, mi piace immaginare, è come quella di un'onda sonora, di un diapason. Il diapason coglie una vibrazione, ne risuona e, per ciò stesso, la propaga, la diffonde. Nel mondo dell'Illuminazione di cui parla il buddismo dovrebbe essere lo stesso: vibrare su una certa lunghezza d'onda. Se lo si fa davvero, è naturale che si diffonda nell'ambiente intorno l'emanazione del proprio 'stato vitale'. Ma non si tratta di uno 'stato vitale' tipo 'fitness', uno star bene di tipo salutista. Si tratterebbe, invece, di una 'sintonia' con il Gohonzon, cioè - appunto - con il mondo d'Illuminazione, con la parte profonda dell'esistenza, con il Senso, con la Vera Entità, con la Consapevolezza, con Nam-Myoho-Renge-Kyo (non soltanto la mera ripetizione, ma il significato). Se la vibrazione è quella 'giusta', è naturale che la nostra 'pratica', cioè il nostro cammino evolutivo, costituisca un richiamo, un messaggio anche per gli altri. Se accendiamo una fiamma, per quanto piccola essa sia, anche una fiammella, essa rischiara l'oscurità intorno. E' nella natura della luce farlo. Non credo che la luce debba preoccuparsi di diffondere la luce. Se è luce... diffonde! In un modo o nell'altro. Tutt'al più ci si può preoccupare di accendere davvero la fiammella, di ingenerare un processo di combustione reale (che bruci il karma, cioè i nostri limiti) e non soltanto immaginario. Cioè di lavorare davvero su sé stessi (non sugli altri...). Propaganda, invece, significa 'vendere' qualcosa. Significa prospettare soluzioni precostituite, indurre bisogni, sensi di colpa, comportamenti. Tutto, però, si risolve nello smercio di un prodotto, di un 'oggetto', quindi - tutto sommato - di qualcosa di esterno all'individuo, talvolta addirittura di estraneo. Può capitare di convincersi della bontà di un prodotto al punto da desiderare di diffonderne l'uso, di estenderne la commerciabilità, l'emergenza, il gradimento collettivo rispetto ad altri prodotti consimili. Si può essere anche molto sinceri in questo. Però si sta solo smerciando qualcosa: in ambito spirituale il cambiamento non riguarda il 'cosa', forse neanche il 'come'. Non è la tecnica che può. Nel migliore dei casi la tecnica rappresenta un aiuto, un supporto, per una rivoluzione che, comunque, bisogna compiere dentro di sé e 'alzandosi da soli'. Si può propagandare l'Illuminazione come se fosse un oggetto, un ulteriore prodotto della nostra società dei consumi, di qualche multinazionale? Secondo me no. Chi lo fa, anche con le migliori intenzioni, è destinato a fallire: il suo 'prodotto' costituisce quasi per definizione una sovrastruttura che, presto o tardi, risulterà oppressiva, ingombrante, superata o superabile da un nuovo ritrovato tecnico. La propagazione è diversa. Forse prescinde dal metodo e arriva subito all'essere, alla realtà interiore, a ciò che c'è di eterno dentro. Mi sembra molto giusta la locuzione 'da cuore a cuore'. Si propaga la luce, non il modo in cui si è acceso lo stoppino, che può anche variare. La luce è la rivelazione, il fatto che esista, che sia possibile, che non sia una vana fantasticheria. Se nella mia vita realizzo anche una piccola parte di luce, lo faccio anche per gli altri, ciò avrà un'effetto anche sugli altri. Perché siamo tutti collegati e perché è quello che tutti - in modo più o meno consapevole - cerchiamo: 'bodhicitta', il 'pensiero dell'illuminazione', l'unico 'vero' e fondamentale desiderio. La verità non ha bisogno di alfieri, di difensori, di combattenti. Si propaga da sé, perchè tutti la percepiscono e la cercano. Un piccolo fiammifero, quindi, può generare un grande incendio, quello di una foresta. Accendere, dunque, la propria luce: questa è l'essenza. Si diffonderà. Questo non significa essere dei solitari, non voler partecipare isolandosi sulla montagna. E' normale e auspicabile interagire, cercare di capirsi, di aiutarsi, persino di organizzarsi. Però bisognerebbe organizzarsi e proporsi come organizzazione quasi chiedendone scusa, con levità, con la capacità di lasciar andare, di proporre ma sempre con la costante preoccupazione di non imporre e di non 'vendere' nulla. Come dice il Budda nel Sutra del Loto: "Questo è il mio pensiero costante..."

venerdì, dicembre 09, 2005

Morte ed eternità.


S'è detto più volte che quella sulla morte è l'unica vera grande inchiesta, alla radice di ogni impostazione filosofico-religiosa. Riflettendo sulla morte ci chiediamo, di rimando, che cos'è la vita, qual è il suo significato e se ne ha uno. Come praticanti, ci chiediamo quale sia la posizione del buddhismo sull'argomento, perché ci sembra a volte ambigua: sopravviviamo oppure no? Si parla anche nel buddhismo di 'eternità della vita', ma come potrebbe essere eterna se non ci fosse la continuità dell'identità individuale fra una rinascita e l'altra, se il karma fosse soltanto una valigia che cambia di mano? Che cosa sarebbe dunque eterno, il karma forse? Allora sarebbe meglio parlare di 'eternità del karma', non della vita. E se il karma - la legge di causa ed effetto - fosse eterno, quindi 'assoluto', come potrebbe essere possibile il suo superamento, scopo principale del buddhismo? E il Nirvana, è 'estinzione' come annullamento e negazione, oppure si tratta di uno stato di coscienza superiore, al di là del tempo e - quindi - della morte? Dal canto mio ho elaborato alcune risposte a partire dagli insegnamenti buddhisti. Non so quanto siano realmente sostenibili dal punto di vista dottrinario, ma a me 'tornano', cioè mi soddisfano. Poi, è chiaro che bisogna lasciare sempre la porta aperta al dubbio, alla possibilità di riformulare tutto. Secondo me un 'quid' che sopravvive e che non è identificabile con il solo karma esiste, e credo che si tratti di una identità più profonda di quella che la nostra autopercezione ci suggerisce normalmente. Ciò che comunemente chiamiamo 'noi stessi' è qualcosa di piuttosto superficiale, è la nostra 'persona'. Ricordiamo che il termine 'persona' è mutuato dal teatro greco e significa 'maschera'. Credo che essa sia il 'ruolo' che ricopriamo come attori in ogni singola vita, ma che viene abbandonato al momento della morte o poco dopo. Sicuramente la persona 'Maurizio' con cui attualmente mi identifico non sopravviverà alla morte: si tratta, come dice il buddismo, di un insieme di aggregati. Tuttavia credo che il karma, i ruoli, le parti, abbiano uno scopo: quello della crescita della coscienza individuale. Che cosa rimarrebbe se dimenticassimo tutto di noi stessi? Rimarrebbe la nostra coscienza, il nostro sentirci di esistere. L'identità dell'io, del 'piccolo io', si basa sulla memoria. Senza di essa l'io non avrebbe sostanzialità. Svanisce con la memoria e, quindi, alla morte del corpo. Esistono poi livelli di memoria più profondi, non legati al cervello fisico: il karma, l''ottava coscienza', l''inconscio'. Anch'essi sono destinati a sciogliersi, a risolversi. Dove? Nella 'nona coscienza', che non è un 'magazzino' e, al contempo, è il trait-d'union che rappresenta il senso di ogni esperienza e di ogni serie di esperienze. Senza la nona coscienza esisterebbe soltanto il meccanismo universale. L'ingranaggio. E basta. Con la nona coscienza esiste l'origine e lo scopo del meccanismo e la garanzia che ogni percorso, pur sfociando in una consapevolezza unitaria e totalizzante, conservi la storia e la dignità di ogni passo, di ogni fase e, quindi, la particolarità individuale.

martedì, dicembre 06, 2005

Osservazioni su mantra e daimoku.



Valutazioni personali sui mantra in generale e il daimoku in particolare:
1. la recitazione di un mantra e, comunque, la pratica di una tecnica meditativa, tendono ad allentare i vincoli con i quali l'io imprigiona la capacità percettiva e l'intuizione profonda. Il mono-tono del mantra favorisce un certo rilassamento, anche fisiologico, e una certa pacificazione mentale, permettendo l'emersione di contenuti di solito nascosti alla coscienza ordinaria. La situazione formale della recitazione assomiglia ad una condizione di 'deprivazione sensoriale', cioè non sono presenti particolari stimoli sensori e distrazioni e, quindi, il mondo esterno perde una parte della sua presa sull'esperienza vigile. Al contempo la vigilanza rimane - se non si cade in uno stato di sonno - e quindi l'osservazione tende a focalizzarsi sui contenuti interiori piuttosto che su quelli esteriori. Questo spiega l'emersione che talvolta si verifica anche di contenuti spiacevoli, di attacchi di panico o altro: venendo meno il controllo cosciente, viene fuori quello che c'è immediatamente sotto, nelle zone sub-coscienti, altrimenti nascosto o coperto per motivi difensivi o di 'rimozione'. Possono rendersi evidenti anche emozioni positive, ricordi, pensieri, qualche volta sogni ad occhi aperti oppure, se si va abbastanza nel profondo, piccole o grandi 'illuminazioni' nello stile dei Pratyekabuddha: cioè intuizioni più o meno parziali o ampie sulla natura del reale e su sé stessi.
2. Ogni tecnica meditativa e ogni mantra hanno un significato e privilegiano una particolare visione del mondo, del divino, dell'illuminazione: è come se si trattasse di farmaci diversi, di medicine differenti, con indicazioni e posologie specifiche. Qui rientriamo nel discorso sugli Upaya, gli 'espedienti', ripreso anche dal Buddha quale 'bravo medico' in grado di prescrivere la giusta medicina. Tenuto fermo quanto anzidetto sull'effetto fisiologico e psichico delle tecniche di meditazione in generale, dunque, dobbiamo anche tener conto del proposito e dell'effetto della singola tecnica per cercare di comprenderne il significato specifico. Il discorso sarebbe lungo, ma potremmo analizzare lo slancio devozionale del mantra "Hare Krishna", il desiderio di vedere oltre l'illusione delle forme implicito in "Om Mani Padme Hum", oppure l'affidamento al divino quali creature piccole e insufficienti espresso nel mantra esicastico cristiano "Kyrie Eleison". Nel nostro caso potremmo dire che "Nam Myoho Renge Kyo" indica la dedizione e la sintonia con la Legge Mistica e Misteriosa dell'Esistente come lo scopo stesso della vita, il più profondo, il più ampio, il più reintegrativo, quello alla base di tutti gli altri.
3. Secondo me non bisogna, recitando il Daimoku, cercare di avere un atteggiamento piuttosto che un altro al di là delle semplici regole di base: voglio dire che il mono-tono, la concentrazione sul mandala e l'immobilità della posizione a mani giunte - anche se imperfette e non osservate con estremo rigore - tendono comunque a produrre gli effetti accennati al punto 1. Non si tratta di effetti difficilissimi da raggiungere, tutti li abbiamo sperimentati. L'importante è accettare e osservare quanto accade: talvolta si è concentrati, talaltra distratti, annoiati, smaniosi, angosciati, duri, aperti, felici, illuminati, sereni e via dicendo. Tutto questo fa parte di 'Kanjin', l'osservazione di noi stessi proprio come siamo. Secondo me non dovremmo cercare di essere diversi o di seguire un modello ideale di recitazione. Se ci 'guardiamo allo specchio' non dovremmo interporre maschere.
4. Più difficile è recitare realizzando consapevolmente il 'significato' di Nam Myoho Renge Kyo, cioè la sintonia con il Mistero della Vita. Qui entriamo nel senso mistico vero e proprio della nostra tecnica, connesso con l'altro scopo di Kanjin: osservare sé stessi non soltanto per vedere il trambusto e l'alternarsi dei 'nove mondi' e delle 'otto coscienze', ma riuscire a scorgere il 'decimo mondo', la buddhità, e la 'nona coscienza', quella Amala, cioè l'Incontaminata. Il punto è che l'osservazione del 'piccolo io' dovrebbe permettere la sua purificazione, l'autoconoscenza e il distacco dalla mutevolezza dei 'cinque aggregati', dando la possibilità di scorgere il fondamento, eterno e immutabile, il Vero Io, il Sé. Normalmente invece ci si ferma ai primi effetti della tecnica e si viene attaccati dai 'demoni': cioè quanto emerge tende ad avere il sopravvento sulla qualità della pratica. Per esempio una paura, una rabbia o un desiderio di potere, cioè il 'mondo di animalità', di 'collera' o quello di 'avidità' venuti alla luce durante la recitazione vengono a colorarne l'intenzionalità, coprendo il vero significato di Nam Myoho Renge Kyo. E' per questo che il buddhismo deve poter viaggiare sui tre binari di pratica, fede e studio, così che il corpo, il cuore e la mente si sostengano e si bilancino l'un l'altro nel cammino evolutivo della conoscenza di sé e del Sé. E' per questo che è anche importante il confronto con gli altri, con il Sangha, la comunità di chi condivide gli stessi intenti o interessi. Da soli spesso si rischia di perdere l'obiettività della visione oppure si diventa unilaterali, come talvolta fanno gli auto-didatti.

Sadguru.


Nell'induismo - area religiosa e filosofica dove, direi per definizione, se ne sa parecchio sui Guru, sui Maestri spirituali - si dice che ne esistono di due tipi: Upaguru e Sadguru. 'Upa' significa in sanscrito 'verso', 'prossimo' ad una certa cosa. Dunque 'Upaguru' è prossimo al Guru, oppure conduce al Guru, ma non è propriamente il Guru stesso. Quest'ultimo è 'Sad-Guru', cioè il 'Vero Guru'(sad=sat=verità, essenza). Sebbene talvolta nell'induismo - in accordo con la dottrina dell'Avatara (l'incarnazione divina) - il Sadguru sia identificato con una persona, vi si dice abbastanza chiaramente che in realtà il Vero Guru è presente in ogni essere vivente, cioè è il Sé, Dio stesso, il Purusha, il Brahman. Upaguru sono tutti quei maestri che ci aiutano a trovare la strada e a riconoscere gli insegnamenti del Maestro Supremo. Talvolta Upaguru è la vita nei suoi eventi, talaltra può essere un insegnante, una guida in grado di ispirarci.
In linguaggio buddhista, riportando il concetto, possiamo dire che ogni maestro 'esterno' è un 'maestro provvisorio', un'immagine parziale del Maestro. Il Vero Maestro è il Buddha Eterno e Originario, che nella sua personalità 'storica' - Shakyamuni - è anch'egli incompleto, perché ci parla da fuori di noi. Possiamo e dobbiamo avvalerci di guide provvisorie, che ci sono molto utili fin quando non riusciamo da soli a prendere contatto con il Sé in noi. Ben vengano: dobbiamo rispettarle ed essere loro grati. Anche in psicologia è ben nota l'importanza (come anche i limiti e la pericolosità) del 'transfert' (il rapporto terapeuta-paziente, analogo a quello maestro-discepolo), evento considerato indispensabile per la riuscita della 'terapia'. Ma dobbiamo anche prendere coscienza che la funzione più alta delle guide e dei maestri è quella d'indicarci la Via verso il Sad-Dharma e il Sad-Guru, cioè per renderci capaci di diventare Sovrani, Maestri e Genitori di noi stessi.

Disattendere le aspettative.




Shakyamuni, dopo aver lasciato la sua reggia, cioè la visione limitante del mondo in cui era vissuto fino a quel momento, s'inoltrò nella foresta, nei villaggi, nel variegato disordine della vita, per cercare di scoprire il perché della sofferenza, per conoscere meglio sé stesso e la Legge che regola l'esistenza. Era un principe e agli occhi del re suo padre avrebbe dovuto essere il futuro sovrano, ma egli rifiutò di identificarsi in quel ruolo e smise di praticare lo stile di vita di corte in cui era nato e cresciuto. In breve tradì le aspettative che gli altri avevano su di lui. Nella sua ricerca incontrò dapprima due, tre Maestri. Ognuno di loro sembrava essere il detentore della Verità. Ognuno di essi si era spinto fino a vertici filosofici ed esperienziali mai raggiunti prima. Conoscevano la mente concettuale e ciò che va oltre la concettualizzazione, le regioni della forma e della non-forma. Siddharta studiò diligentemente le loro dottrine e si immerse negli stadi meditativi da loro indicati fino a diventare il migliore allievo in ognuna di quelle scuole. Però, ogni volta, ritenne di non aver trovato le risposte che cercava, di non aver veramente conosciuto sé stesso. Pertanto smise di praticare quelle discipline e continuò il pellegrinaggio interiore. Andò a vivere nella foresta insieme agli asceti. Condivise con loro l'idea che il maggior ostacolo alla comprensione fosse il corpo fisico con le sue limitazioni. Pertanto cercò insieme ai suoi compagni di dominare ogni istinto fisiologico, di fiaccare gli impulsi naturali, di far tacere ogni brama. Anche in quel caso il suo desiderio di conoscenza lo portò molto lontano e divenne pressocché un Maestro, un esempio per gli altri asceti. Quando decise che anche con quei sistemi non si poteva raggiungere ciò che cercava, partì dalla foresta e smise di praticare la mortificazione ascetica. I suoi compagni, che fino a quel momento lo avevano ammirato, pensarono che avesse disatteso e tradito il comune ideale. Secondo me Shakyamuni non tradì mai nulla, proseguì semplicemente una indagine che andava oltre tutte le concezioni e le tecniche della sua epoca. La sua vera pratica consisteva principalmente nel non fermarsi alle verità precostituite, nel cercare costantemente di aprire la sua vita al nuovo, all'ulteriore, alla conoscenza di sé e del Sé. Sia pure nel suo stile immaginifico e mitologico, penso che il Sutra del Loto dica una grande verità: che negli ultimi anni della sua vita il Buddha continuò a mettere tutto in discussione, compreso il suo stesso messaggio. Dichiarò che quanto era andato insegnando per quasi quarant'anni non era che un insieme di verità provvisorie, di punti-di-passaggio, di espedienti. Disse che la sua intenzione non era mai stata davvero compresa, e che non era comprensibile se non fra Buddha, cioè fra persone che vivevano e sentivano profondamente la sua stessa ricerca, il suo "volo continuo". Pertanto, con il Sutra del Loto, Shakyamuni disattese il suo stesso insegnamento - la sua forma esteriore - per cercare di indicare qualcosa di più profondo e vissuto, oltre ogni dottrina codificata. Anche Nichiren smise di praticare il buddhismo della sua epoca scandalizzando i contemporanei e, probabilmente, in tal modo dimostrò di aver compreso l'intenzione e la "vera pratica" di Shakyamuni. Il Daishonin disse infatti che quest'ultima non consisteva in nessuna tecnica o esperienza prestabilita, in nessuno degli espedienti del Buddha, piuttosto era definibile come "Nam Myoho Renge Kyo", cioè come una costante, incessante e libera dedizione alla ricerca della Legge Mistica e Misteriosa che sottende la manifestazione dell'Universo.

lunedì, dicembre 05, 2005

Vegetarianesimo.



Sono vegetariano da 30 anni. Ho cominciato a desiderare di non mangiare più carne che avevo 16-17 anni. L'idea era ispirata dai miei molteplici interessi riguardanti la spiritualità orientale, lo yoga, eccetera. Improvvisamente volli cambiare alimentazione e in famiglia nacque il putiferio: pensarono che sarei andato incontro a qualche grave carenza, che mi sarei ammalato. All'epoca, a livello di cultura comune, non si sapeva neanche bene cosa significasse la parola 'vegetariano', una cosa ignota, misteriosa. Mia madre mi portò - ancora oggi non so bene perché in quanto non era religiosa - da un medico che era anche un monaco cattolico, forse pensando che ero preda di una qualche forma di crisi mistica che solo un prete poteva riuscire ad arginare. Il dottore-monaco disse che mi capiva, sì, che anche lui amava tanto le bestie, ma sapeva che Dio ha messo a disposizione dell'uomo tutto della natura, animali, vegetali... Aggiunse - per rinforzare la sua argomentazione con un esempio concreto - che un agnellino è taaantobello e carino, gli si può voler bene, ma... quanto è buooonooo..! Ebbene, se anche potevo avere, in quel momento, dei dubbi sulla mia scelta, istantaneamente furono dissipati del tutto: nulla avrebbe potuto più farmi recedere dal mio proposito di diventare vegetariano! Avevo trovato un 'ichinen' (determinazione) incrollabile. Oggi, dopo tanti anni, sono molto felice della mia decisione, che ancora perdura e si rinnova di giorno in giorno. Mi sono trovato bene e ritengo che anche la mia salute ne abbia tratto giovamento. Soprattutto devo dire che per me non è stato e non è un sacrificio e non credo che sia giusto farsi violenza: se desiderassi mangiare della carne, probabilmente lo farei. Se mi reprimessi porterei con me un desiderio inappagato, qualcosa di irrisolto. Sono ben consapevole che la nostra, soprattutto in occidente, è una cultura carnivora da centinaia di anni: non è semplice tagliare le proprie radici, sradicarsi da abitudini che, probabilmente, sono sedimentate nell'inconscio della razza. Quando si reprime qualcosa, bisogna sapere che, in un modo o nell'altro, la natura si ribella, si 'vendica': quindi non consiglio a nessuno di diventare vegetariano se non è ben sicuro di sentirsi bene nella sua scelta. Secondo il mio parere, però, una riduzione del consumo di prodotti animali fa comunque bene all'organismo. Personalmente, infine, non sarei capace di uccidere degli animali per mangiarli, né potrei sopportare di vederne le sofferenze, anche se inflitte loro da altri: questo rimane, ancora oggi, il motivo principale del mio vegetarianesimo. Tuttavia sono consapevole che anche i vegetali soffrono, magari ad un livello diverso degli animali: si tratta di organismi più semplici e, comunque, concretamente, un... pomodoro riesco ancora a coglierlo. So che respirando o camminando uccido milioni di batteri. So che se compro delle scarpe di pelle, quella pelle è di animali uccisi e, quindi, partecipo anch'io in qualche modo alla cultura del mattatoio. Non posso evitare completamente le contraddizioni. Credo che l'importante sia che ognuno cerchi di avvicinarsi quanto più possibile a ciò che ritiene giusto per sé, interrogandosi sempre, di momento in momento, ed essendo sempre pronto a cambiare. Al contempo non mi sembra il caso di giudicare gli altri, o di pensare che essi debbano comportarsi secondo i nostri parametri personali. Ognuno di noi è qui, su questo piano di esistenza, per sperimentare con la propria vita e per imparare.