venerdì, dicembre 03, 2010

Ancora domande sul buddismo.


Spesso nel Gosho o negli scritti buddisti si trova l'espressione "mondo di saha". Che significato ha?

"Saha" è un termine sanscrito dai molti significati, tutti con una certa analogia fra di loro: possente, che supera, che sconfigge, che resiste, che porta, sostiene, sfida, che causa, efficiente, stimolante, capace. Come sostantivo femminile è la "terra" e in questo senso costituisce probabilmente la chiave dei significati precedenti: la terra come antico simbolo della natura ha forza e durata, porta, sorregge, sostiene ecc. Nel buddismo viene normalmente evidenziato il significato, presente nell'etimo, di "sopportare", "sopportazione". Quindi "mondo di saha" equivale a "mondo di sopportazione", indicando con questo appellativo il mondo in cui viviamo attualmente, il nostro piano di esistenza. In accordo con la visione filosofica buddista si intende che qui si sopportano innumerevoli sofferenze. Per questo uno degli appellativi del Budda è "colui che sa sopportare". Questa concezione non equivale, però, alla "valle di lacrime" della tradizione occidentale. Nel buddismo, infatti, c'è sempre la possibilità della trasformazione, della rivitalizzazione, anzi, la sfida alle circostanze ne è parte essenziale. Quindi "sopportazione" come pazienza e comprensione sicuramente, ma dev'esserci anche coraggio, forza, capacità di cambiare sé stessi e il proprio ambiente. Lo scopo del buddismo di Nichiren è la felicità in questo mondo.


Altre forme di buddismo non sembrano puntare così tanto sul proselitismo come fanno i buddisti di Nichiren. Per esempio il Dalai Lama addirittura sconsiglia agli occidentali di convertirsi al buddismo e suggerisce piuttosto di rimanere nell'ambito della propria religione di appartenenza. Perché invece voi siete così interessati alla propagazione?


Per ciò che riguarda il Dalai Lama invito a riflettere: un capo religioso come lui, che ha grandi responsabilità politiche e che spesso è ospite dell'Occidente - avendo bisogno del sostegno dell'opinione pubblica e della politica occidentale, può ragionevolmente fare in Occidente un'attiva opera di proselitismo, contrastando in tal modo le religioni tradizionali dei nostri paesi? D'altra parte i monasteri del buddismo tibetano prolificano e si moltiplicano parecchio da noi, e i loro insegnamenti non sono diretti ai soli tibetani, anzi...

Per tornare alla domanda, direi che il "proselitismo" nell'ambito del buddismo di Nichiren debba piuttosto chiamarsi "propagazione": si tratta infatti della diffusione di un'onda di pensiero e di fede, di una sintonia che si crea, non certo di una propaganda volta alla cooptazione di adesioni più o meno forzate, connotazione negativa spesso presente in chi vuole fare proseliti. Naturalmente, come buddisti di Nichiren Daishonin e del Sutra del Loto, apprezziamo il nostro buddismo e pensiamo che possa aiutare moltissimo ad affrontare e risolvere le difficoltà della vita e a raggiungere una felicità interiore non condizionata dagli eventi. Per questo motivo ne parliamo a chi ci chiede - in maniera più o meno esplicita - un aiuto, un sostegno. Non cerchiamo di "convertire" chi è soddisfatto della sua religione, della sua filosofia e della sua vita! Con queste persone e con le loro organizzazioni vogliamo, semmai, com'è successo per esempio con la Comunità di Sant'Egidio, instaurare un dialogo e una collaborazione per fini comuni, come quelli del disarmo, della pace, del rispetto per l'ambiente, eccetera.


Non capisco perché siete così esclusivi riguardo alla vostra preghiera, pensando che SOLO la recitazione di Nam-Myoho-Renge-Kyo possa produrre benefici. Forse che non sono efficaci anche le preghiere delle altre fedi, per esempio il Padre Nostro, oppure le preghiere ebraiche o islamiche, o qualsiasi altra?


Innanzitutto bisogna chiarire che nessuno, nell'ambito del nostro buddismo, afferma che le preghiere di altre impostazioni religiose non abbiano efficacia. Il Presidente Ikeda è molto chiaro su questo punto! Nella prefazione alla nuova traduzione del Gosho (che per noi è paragonabile ad un testo sacro, e quindi è di grande rilievo) afferma che le differenze religiose sono imputabili a fattori storici, culturali e antropologici, ma TUTTE le fedi contengono al loro interno, nella loro profondità, il potere di aiutare le persone a raggiungere la felicità. Egli auspica un dialogo fra le religioni e obiettivi comuni per sostenere l'umanità in un momento complesso e difficile come l'attuale; afferma inoltre che questa collaborazione è un suo grande desiderio. Poichè Daisaku Ikeda è l'attuale Maestro della Soka Gakkai, sembra possibile che i buddisti possano deprezzare le forme di preghiera delle altre fedi?

Detto ciò, bisogna considerare che noi abbiamo scelto di praticare questo buddismo e non un altro. Perché? Evidentemente per noi ha un valore speciale, che si accorda con la nostra mentalità, con quello che cerchiamo, con ciò di cui abbiamo bisogno. In occidente non siamo nati buddisti: scegliamo di diventarlo perché in questo modo troviamo delle risposte particolarmente soddisfacenti, almeno per noi! Per questo motivo diamo alla nostra pratica un grande valore, ma ciò non significa che vogliamo svilire o combattere le altre impostazioni, tutte degne di rispetto. Il confronto, se c'è, dev'essere di riflessione sui punti che comuni che ci uniscono. Le differenze, tutt'al più, possono essere stimolo ad una certa dialettica, al rispetto, alla conoscenza reciproca e al superamento delle fratture insanabili, così da crescere insieme verso un mondo migliore.


Vorrei sapere se il buddismo possa davvero essere considerato una religione: non si tratta piuttosto di una filosofia? Anzi, direi che il concetto di "religione" possa essere addirittura riduttivo e limitato rispetto all'ampiezza della concezione buddista della vita!


Dal punto di vista del suo significato profondo (e anche etimologico) la parola 'religione' significa "legame". Si intende il legame, la connessione fra microcosmo e macrocosmo, io individuale e universo, umano e divino, immanenza e trascendenza. Lo scopo ultimo della religione, dunque, è quello di ripristinare o, comunque, rendere cosciente questo legame. In questo senso il buddismo, con la sua ricerca dell'illuminazione, è lo è senz'altro. Secondo qualcuno poi, ad esempio Erich Fromm, la religione per essere tale deve avere dei rituali, un sistema di credenze e un oggetto di culto. Anche queste caratteristiche sono presenti nel buddismo. Che cosa risulta strano a noi occidentali nel riconoscere che il buddismo non è soltanto una filosofia?
I motivi della difficoltà potrebbero essere i seguenti:
1) L'assenza di un Dio da pregare, quindi apparentemente una sorta di "ateismo". Come può esserci una fede atea? Sembra una contraddizione! In realtà il buddismo riconosce gli "dei" come funzioni universali, come aspetti della Legge Mistica, quindi non è veramente "ateo". La Legge Mistica, in effetti, è la Realtà Fondamentale ed Eterna, l'Assoluto, e sta al posto del concetto di Dio cui siamo abituati, ma privo degli aspetti antropomorfi.
2) La forte presenza della logica e del senso della realtà nel buddismo sembra lontana dalla nostra concezione della fede. Per questo lo percepiamo più come un sistema di pensiero e ne cogliamo aspetti libertari che normalmente non associamo alla religione istituzionalizzata. Anche questo è un "errore di parallasse" generato dalla nostra cultura di appartenenza. Nel buddismo, invece, la fede è un elemento essenziale, ma è effettivamente molto aperta e libertaria e non è mai disgiunta dalla ragione, anzi, si tratta di due aspetti non scindibili di ciò che viene chiamato "spirito di ricerca".

martedì, novembre 30, 2010

Confronto con altri mantra


Un'amica mi ha scritto: "La mia insegnante di yoga ha proposto, durante la lezione, la ripetizione di un mantra: Om Mani Padme Hum. Come praticante del buddismo di Nichiren Daishonin mi sono sentita piuttosto a disagio perché, lì per lì, sono stata colta alla sprovvista e mi sono uniformata senza neanche capire bene il significato di questa preghiera e se essa potesse essere in contrasto o meno con gli insegnamenti del nostro buddismo. Perché l'insegnante ha dato per scontato che tutti fossero disposti a recitarla e che cosa bisogna fare in questi casi?"


Il mantra del buddismo tibetano "Om Mani Padme Hum" significa: "Om (il suono dell'energia creatrice universale) - il Gioiello è nel Loto". Il senso è che all'interno del Loto è nascosto un gioiello di grande valore mistico. Ciò è piuttosto simile a quanto Nichiren insegna: lui stesso trovò nella profondità del Sutra del Loto il gioiello mistico del Daimoku! Al di là di ciò comprendo il tuo imbarazzo nel dover ripetere un mantra che non conosci, e devo dire che in effetti a volte si dà troppo per scontato da parte degli insegnanti di discipline orientali che tutti vogliano fare certe preghiere o accettare certi mantra. A loro discolpa c'è l'amore per l'Oriente che essi hanno, e il desiderio di sperimentarne liberamente le tecniche senza i vincoli cui ci aveva abituato la nostra religione tradizionale - per cui magari il rifiuto di condividere una meditazione o pronunciare un mantra deve loro sembrare una forma di resistenza, di pregiudizio e di chiusura. Che cosa bisogna fare in questi casi? Francamente non credo che ci sia una risposta valida per ogni circostanza. Secondo me in alcuni casi e situazioni si potrebbe cortesemente declinare l'invito a partecipare ad una certa preghiera dicendo chiaramente che si è buddisti e che si preferisce non fare una preghiera con la quale non si è d'accordo proprio per rispettarla, perchè non si possiede l'atteggiamento interiore richiesto e non si ha la stessa visione. In altre situazioni, invece, si potrebbe accettare di partecipare al rituale comune per stare insieme agli altri e per non dare l'impressione di praticare una religione chiusa ed esclusiva - anche perché effettivamente non lo è: in questo caso potremmo sforzarci di trovare nel rituale che ci propongono dei punti in comune con il nostro buddismo, come se stessimo facendo un dialogo; ciò non significa che stiamo abbandonando o offendendo la nostra pratica, ma semplicemente che ci stiamo aprendo ad altri punti di vista focalizzandoci sul valore che in essi è certamente presente.
Ricordiamo che il Presidente Ikeda afferma - nella prefazione alla Raccolta degli scritti di Nichiren Daishonin - che tutte le religioni hanno nella loro profondità il potenziale per portare le persone alla felicità, e che è un suo preciso desiderio che possa esservi dialogo e collaborazione fra di esse per una reciproca crescita e una trasformazione positiva dell'umanità.

lunedì, novembre 29, 2010

Domanda sul "vero" buddismo.


Spesso si sentono o si leggono dei riferimenti al buddismo di Nichiren Daishonin che lo qualificano come "vero" buddismo, oltretutto in modo palesemente autoreferenziale perché sono gli stessi praticanti di questo buddismo ad utilizzare tale espressione! In effetti sono un pò perplesso al riguardo. Forse si intendono indicare le altre scuole o correnti nell'ambito del buddismo come delle contraffazioni? Francamente credo che nessuno possa dirsi detentore della verità assoluta. Che ne pensi?

In proposito non posso che offrire le mie personali riflessioni. Voglio precisare che non essendo questo blog direttamente collegato alla Soka Gakkai se non per il fatto che ne sono membro, ciò che esprimo non è l'opinione ufficiale dell'organizzazione ma il mio pensiero di praticante. Detto ciò, riguardo alla questione posta osserverei che normalmente le definizioni che utilizziamo in italiano sono derivate o tradotte dal giapponese. Immagino che anche per "vero" buddismo sia la stessa cosa, così come accade per l'espressione "vero" insegnamento (hon-mon), contrapposta ad insegnamento "provvisorio" (shaku-mon), "vero" Budda (hon-butsu) e Budda "transitorio" (shaku-butsu). Ciò che è stato tradotto con "vero" nei casi citati sarebbe più propriamente traducibile con "originale", e si riferisce all'insegnamento che Shakyamuni rivela nel Sutra del Loto: quello che "originariamente", cioè in maniera innata, la natura dell'illuminazione è presente in ogni essere vivente. Un altro possibile significato di "vero" potrebbe essere quello che contrappone il "vero" insegnamento a quelli "provvisori". Anche questo concetto origina dal Sutra del Loto, dove Shakyamuni dichiarò di non avere - fino a quel momento - detto la piena verità, ma rivelato solo insegnamenti provvisori il cui scopo era di direzionare verso la verità senza però dichiararla apertamente. Quale era questa verità? Sempre quella già espressa: che tutti gli esseri sono potenzialmente dei Budda e anche che Shakyamuni stesso non è che una manifestazione del Vero Budda, il Budda Eterno, cioè della coscienza illuminata intrinseca alla vita universale. Quando si dice "vero" buddismo, dunque, non lo si fa per esprimere una concezione elitaria ed esclusivista della propria pratica o per avversare altre scuole buddiste; piuttosto si vuole alludere all'insegnamento contenuto nel Sutra del Loto e alla sua ulteriore elaborazione da parte di Nichiren Daishonin, che ha inteso porre l'essenza "originale" del Budda a disposizione di tutte le persone comuni, uomini e donne, senza alcuna distinzione o discriminazione. In breve l'espressione "vero" buddismo intende indicare la verità che tutti possediamo il potenziale dell'illuminazione e che tutti possiamo manifestarlo.

giovedì, aprile 29, 2010

Luminosità


Talvolta la pratica buddista si apre ad un sentimento solare, luminoso e saldo. Non nego che vi siano momenti difficili, in cui anche una pratica come la nostra - semplice ed essenziale - possa apparire pesante e priva di significato. La vita stessa, in quei momenti, generalmente è su un tono minore, oppure è oppressa dalle difficoltà - e allora recitare Gongyo diventa veramente qualcosa di faticoso: sembra un di più, un artificio inutile e superfluo rispetto ad periodo oscuro che si affronta - dove possono esservi problemi di vario genere ma, in sintesi, si ha a che fare con una o più delle otto sofferenze: nascita, malattia, vecchiaia, morte, essere lontani da ciò che si ama, essere vicini a ciò che si detesta, non ottenere ciò che si desidera, disordine delle "cinque componenti". Proprio in questi momenti, tuttavia, se il disagio diventa veramente forte, se la sofferenza diviene lacerante, la sincerità della pratica si manifesta: il rapporto con il Gohonzon trova una essenzialità, ritorna ai suoi fondamenti, alla sua verità. E' così che mi sento ora: nelle difficoltà attraversate percepisco di aver purificato la mia pratica, di averla resa più salda e più vera. Non che prima non lo fosse, però mi pare che essa, per sua natura, negli anni, tenda ad evolvere, a mutare, a penetrare più a fondo, magari abbandonando con naturalezza aspetti che - pur essendo serviti al tempo opportuno - adesso risultano non più utili. Ecco allora che scaturisce quel sentimento luminoso, quell'apertura di cui parlavo all'inizio. Insieme a tanta gratitudine per aver incontrato, apprezzato e mantenuto la fede nel Gohonzon: non è cosa da poco in un mondo così complesso e problematico. E' un grande beneficio, una vera fortuna.

martedì, aprile 13, 2010

Maestro-discepolo


Proprio oggi ho letto una frase molto interessante sull'ultimo numero (n. 440) del Nuovo Rinascimento, una delle riviste della Soka Gakkai italiana. Alla domanda sul suo legame con il maestro, Jasmina (responsabile nazionale giovani) risponde: "Il presidente Ikeda è la persona che crede in me e questo mi ispira e mi incoraggia a fare sempre meglio." Sono rimasto veramente toccato da questa affermazione, perché mi ha rivelato un aspetto del principio maestro-discepolo a cui, personalmente, penso molto raramente o, forse, addirittura non ho mai pensato coscientemente. Per quanto mi riguarda ho sempre un atteggiamento molto prudente con i maestri di qualsiasi disciplina e genere. Accetto senz'altro la guida di chi, magari, ha più esperienza di me o è in grado di insegnare su argomenti che mi interessano, e di questo sono riconoscente. Però dal punto di vista del maestro spirituale la situazione mi si fa più complicata, perchè non mi piacciono le dipendenze e, talvolta, eccedo in diffidenza. Anche per questo apprezzo il buddismo: in generale in esso si tende a far affidamento soprattutto su sé stessi, sulla propria capacità di auto-determinarsi, sulla propria forza interiore. Tuttavia anche nel buddismo il maestro ha una grande importanza, però come parte di uno scambio maestro-discepolo in cui esiste collaborazione e, in definitiva, anche parità. Si dice addirittura che nel ciclo delle rinascite, di vita in vita, le funzioni del maestro e del discepolo possano ribaltarsi e i ruoli invertirsi - proprio a sottolineare che non si tratta di un rapporto superiore-inferiore, quanto di una complementarietà finalizzata al perseguimento di un obiettivo: l'evoluzione della consapevolezza. Detto questo, la frase citata mi ha sorpreso affermando che il maestro è colui che ha fiducia nel discepolo, nelle sue capacità di essere umano, nelle sue potenzialità. Di solito sono io che mi chiedo se dare fiducia al maestro e che mi faccio anche dei problemi, che ho delle resistenze... e invece è proprio il contrario: è il maestro che mi da fiducia, mi sostiene, mi incoraggia a credere in me stesso!!! Seguire il maestro, dunque, non consiste tanto nel credere in lui, quanto in me (!), perché sostanzialmente è questo che mi insegna e in questo mi sostiene. Non so se mi spiego, ma ciò mi sembra veramente fantastico e perfino rivoluzionario! Per quanto mi riguarda personalmente è un passo in più verso la comprensione del principio maestro-discepolo in chiave buddista.