martedì, novembre 14, 2006

Gongyo.


La parola "Gongyo" significa in giapponese "pratica costante", e allude genericamente al complesso delle pratiche buddiste sottolineandone le necessarie costanza e assiduità. Tale perseveranza è considerata indispensabile in quanto la possibilità di sfuggire al Samsara - cioè ad una visione del mondo condizionata - esige sicuramente un'attenzione e uno studio di sé stessi sempre rinnovati. In senso più specifico la recitazione di "Gongyo" allude alla lettura mantrica e ritmica di una parte del Sutra del Loto, di cui l'altro lato della medaglia è l'invocazione, cioè la recitazione del "Daimoku", ovvero del mantra Nam-Myoho-Renge-Kyo. Si insegna, inoltre, che il Daimoku è la pratica primaria perché in esso è contenuto il senso profondo dell'illuminazione buddista, mentre Gongyo è la pratica secondaria, perché ne è il soltanto il completamento: esso, infatti, ripropone alcuni importantissimi passi dottrinali del Sutra citato - cioè specificazioni e chiarimenti di Myoho-Renge-Kyo, della Legge del Loto, e quindi già in essa presenti. Secondo la mia opinione, volendo fare riferimento all'antica classificazione estremo-orientale dello Yin-Yang, direi che il Daimoku è Yin, perché il suo effetto è più spirituale, dispone all'apertura del cuore, porta l'energia individuale a fondersi con quella universale e ad abbandonarsi in essa; viceversa Gongyo è Yang, perché accresce la concentrazione, la puntualizzazione concettuale, la focalizzazione sulla concretezza e sul particolare. Si dice, infatti, che Gongyo serva a materializzare gli effetti del Daimoku, cioè che ne aiuti la manifestazione fisica, evidente.

lunedì, agosto 07, 2006

E' facile.


Sei immerso, come tutti noi, in un mare di problemi, di sofferenza, di insoddisfazione. Hai cercato più volte una soluzione, credendo che essa consistesse nel risolvere quella o quell'altra situazione, nel liberarti di qualcosa o di ottenerne qualche altra. Talvolta sei riuscito nel tuo intento - oppure no - ma niente ha saputo risollevarti dallo stato di delusione, di frustrazione, di impotenza che, in fondo, sempre permane nel tuo cuore. Io non ho rimedi particolari, nessuna portentosa medicina che possa aiutarti: solo una piccola cosa, la mia esperienza. Posso condividerla con te. Ma anche così, è necessario un tuo cambiamento, una tua partecipazione, una tua sincera ricerca. Nessun rimedio agisce meccanicamente, né può sotituirsi a te, alla tua consapevolezza e alla tua forza. Allora, ascolta: la felicità è possibile, i Maestri dell'umanità ce la indicano da sempre. E' gioia di vivere, di percepire, di agire. E' gioia spontanea che fonda sulla sicurezza in sé stessi e sulla fiducia nella vita. Non è niente di speciale, ma è - al contempo - un gioiello prezioso, inestimabile, difficile da trovare. Sì, perché noi esseri umani complichiamo sempre le cose, abbiamo una grande attitudine in questo, una capacità di inasprire i conflitti, sia interni - in noi stessi - che esterni, con l'ambiente e con gli altri. Semplifichiamo, dunque. Certamente vogliamo essere semplici ma non semplicistici: insomma siamo determinati a raggiungere la profondità delle cose, la loro vera entità. Sì, intendiamo osare tanto. Desideriamo riappropriarci di ciò che abbiamo profondamente radicato nel cuore, ma che crediamo di avere perso oppure che non sia mai esistito. C'è uno stumento che puoi usare per recuperare quel potenziale, un veicolo sul quale puoi salire. Il Buddha ne ha approntato uno, l'ha fatto proprio per te. L'ha costruito perfettamente, l'ha perfettamente dosato. In esso c'è profondità di significato, ma anche facilità di apprendimento, di comunicabilità, di esecuzione. Ecco di che si tratta: devi soltanto ripetere una semplice frase, nella quale è espresso il tuo sentito affidamento alla magia della vita, al suo lato misterioso e miracoloso. Devi dire: Nam Myoho Renge Kyo. Fallo con convinzione, fallo con speranza, con la determinazione di trovare finalmente una soluzione vera, qualunque sia il tuo problema - e tutti i problemi meritano cura, rispetto: questo mantra ha il potere di indirizzarti nella giusta direzione. Non importa che tu capisca il significato letterale di questa frase. Puoi interessartene, ed è un bene che tu lo faccia, ma puoi occupartene in seguito. Ora ripeti semplicemente con me... Nam Myoho Renge Kyo, Nam Myoho Renge Kyo...

giovedì, giugno 08, 2006

Far girare la Ruota della Legge.



Quando il Buddha Shakyamuni, Siddharta, dopo aver conseguito l'Illuminazione iniziò ad insegnare agli altri, si dice che cominciò a "far girare la Ruota della Legge". Poiché in India l'altra "Ruota" conosciuta è quella del Samsara, cioè quella del flusso delle esistenze condizionate, della sofferenza, della morte, girare la Ruota del Dharma ha esattamente il valore opposto: favorire la liberazione, l'affrancamento dai condizionamenti, dal dolore, dall'illusione fondamentale che oscura l'esistenza. Questo, difatti, era proprio lo scopo del Buddha. Nichiren Daishonin, altro Illuminato di altra epoca e localizzazione culturale-geografica, sintetizzò la sua comprensione dell'insegnamento buddhista nel mantra Nam Myoho renge Kyo, che per lui rappresentava il nucleo principale, l'essenza di ogni cammino di consapevolezza e liberazione. Ebbene, recitando il Daimoku - cioè l'invocazione Nam Myoho renge Kyo ripetuta per un certo tempo e con una certa intonazione - è possibile percepire come un movimento rotatorio, cioè il suono - per così dire - ruota, ritorna continuamente su sè stesso e riparte, configura un ciclo ascendente e discendente, verso l'esterno e verso l'interno: praticando in questo modo l'accostamento con l'insegnamento del Buddha e con il ruotare la Ruota del Dharma, mi è risultato facile, spontaneo. Fare Daimoku, dunque, significa sostanzialmente proseguire - qui ed ora - quell'antico gesto, sintonizzarsi con quell'antica risonanza dell'Illuminato, con quel suo tentativo di sciogliere il ciclo del Karma, di trasformarlo, di generare in sé stessi, negli altri e nel proprio ambiente un circolo virtuoso, una ruota evolutiva. Recitando Nam Myoho Renge Kyo si fa procedere la Ruota della Legge, si viaggia allora, si sale sull'Unico Veicolo - come suggerito nel Sutra del Loto - che prosegue la metafora del movimento, della partenza, del viaggio, del mutamento e della scoperta di nuovi paesaggi e orizzonti.

venerdì, maggio 26, 2006

Il beneficio di tutte le pratiche del Buddha.


Secondo la visione di Nichiren Daishonin il Daimoku - cioè il mantra Nam Myoho Renge Kyo - contiene in sé i benefici di tutte le pratiche e di tutte le azioni meritorie del Buddha e dei Buddha nelle tre esistenze di passato presente e futuro. Detta così questa affermazione può essere incomprensibile, o quasi. Vediamo di capire meglio... Il beneficio supremo delle pratiche mistiche del Buddha è, naturalmente, l'Illuminazione - che possiamo definire come uno stato di perfetta integrazione con la vita e con la realtà. Secondo la tradizione buddista il raggiungimento di tale traguardo è stato possibile al Buddha Shakyamuni grazie a numerosissime pratiche protratte nel corso di moltissimo tempo e comuni a tutti coloro che perseguono il "risveglio". Ad esempio Siddharta si impegnò in una approfondita ricerca filosofica, si immerse in avanzati stati meditativi e sperimentò tecniche ascetiche molto rigorose. Si dice anche che nelle vite precedenti avesse già praticato innumerevoli volte il sacrificio di sé come Bodhisattva, vale a dire offrendo sé stesso o la propria vita per gli altri - perfino per la salvezza di animali in difficoltà. Certo, questo tipo di percorso, così lungo e difficile, e che sfocia nel grande mare dell'illuminazione, sembra l'appannagio di un uomo per certi versi divino, oppure di individui fuori dal comune. Però, particolarmente per il buddhismo Mahayana, il beneficio ottenibile con queste pratiche straordinarie è accessibile a tutti gli esseri viventi perché tutti hanno in sé il potenziale dell'illuminazione, ognuno possiede in sé la buddità: la grande realizzazione del Buddha è che tutte le ricerche portano a scoprire qualcosa che si possiede già, e le parabole del Sutra del Loto ne offrono precisa indicazione. Per questo Nichiren Daishonin ci regala un gioiello prezioso e di inestimabile valore, una sintesi di tutti i percorsi compiuti da Shakyamuni, una pratica che li condensa in una unica grande medicina capace di guarire l'oscurità fondamentale, l'illusione: la recitazione di Nam Myoho Renge Kyo. Poiché il Daimoku risveglia il potenziale innato presente nei nostri cuori, esso risulta adatto per ogni tipo di difficoltà, ed è applicabile a tutti gli aspetti della nostra vita, proprio in quanto ognuno di essi può essere illuminato dalla luce della buddità - cioè della consapevolezza, della coscienza, dell'integrazione degli opposti in una sintesi superiore e risolutiva. Non esistono aspetti "inferiori" o "indegni" della nostra vita che non possano servire a dipingere quel meraviglioso affresco del nostro proprio sviluppo, della nostra crescita individuale e collettiva in qualità di esseri umani. Nam Myoho Renge Kyo, dunque, contiene il beneficio e i benefici di tutte le pratiche del Buddha. Si, semplicemente per questo: perché ne è il punto di arrivo, la sintesi. Nam Myoho Renge Kyo significa aprirsi e attivamente affidarsi alla vita universale.

giovedì, maggio 11, 2006

Sintonia.


Praticare è una questione di sintonia. Non si tratta di recitare questo o quel mantra, oppure di fare questa o quella meditazione. Naturalmente la tecnica scelta riveste la sua importanza: non è privo di valore - tanto per fare un esempio banale - ripetere a lungo e con partecipazione mentale "pace, pace", oppure "amore", oppure "volontà": ognuna di queste parole rappresenta un mondo, un'intenzione, una concezione di vita. La concentrazione sull'una o sull'altra tenderà a portarci in una specifica direzione, a sperimentare ed elaborare la nostra vita in quel senso. Ecco perché non tutte le tecniche, non tutti i mantra, non tutte le preghiere sono uguali, come qualcuno sostiene! Si tratta di medicine differenti, con indicazioni, posologie e - magari - anche controindicazioni ed effetti collaterali diversi. Ritorniamo, però, alla sintonia di cui scrivevo all'inizio: praticare un determinato tipo di meditazione non è soltanto un atto formale, meccanico; piuttosto è la ricerca di una giusta tensione interiore, di una sintonia appunto. All'inizio, quando si apprende una determinata tecnica, si è molto concentrati nell'imparare e si entra naturalmente in accordo con l'intenzione della pratica: a ciò contribuisce il fascino della scoperta, il mistero insito in ciò che si sta abbracciando. Poiché, però, si cambia continuamente, man mano che si diventa esperti si perde la freschezza del principiante e le cose rischiano di isterilirsi: l'esperienza accumulata e la conoscenza, come sempre, tendono a distruggere la spontaneità e la vita. A questo punto l'allievo progredito può diventare rigido, fanatico: per cercare di non perdere quello che crede di avere acquisito, comincia a lottare con i suoi sentimenti negativi, con i dubbi, con la noia, magari senza neanche rendersene conto. La sua rigidità può arrivare a coinvolgere i rapporti con gli altri, si manifesta nel voler imporre loro proprio quelle convinzioni che egli stesso sta perdendo: in questo gioca un ruolo importante la paura. Come sempre la chiave è la consapevolezza. Rendendosi consapevoli di tutto questo meccanismo mentale, il praticante può dirigersi nella direzione dell'approfondimento della sua pratica e della ricerca di una sintonia più intima con essa, meno formale e più sostanziale. Quella sintonia, in questa fase, è in sé illuminazione...

venerdì, marzo 03, 2006

Osservare la propria mente.


Recitare Nam Myoho Renge Kyo senza poggiare su nulla, senza illusioni. Perché? Perché man mano che l'esperienza si raffina, man mano che si matura e, in fondo, si invecchia, la consapevolezza dei limiti di tutte le cose si fa sempre più estesa e coinvolgente. Per esempio nell'organizzazione buddhista, nel Sangha, che pure apprezzo molto, riscontro nelle persone - e in me stesso - i sempre presenti limiti umani. Credo nel buddhismo, ma con la prudenza di uno sguardo disincantato. Inoltre, sembra paradossale, mi capita di diffidare anche del 'non-credere', cioè della disillusione, del cinismo, dell'ironia sagace, dell'intelligenza critica. Francamente comincio ad essere commosso dalle cose semplici, quelle che una volta avrei guardato con distacco. Provo compassione per gli errori delle persone, per i miei errori, per questa esistenza sempre limitata, sempre sofferente, senza sicurezze e con il disperato bisogno di stabilità, riconoscimento e amore. E allora qual è oggi il senso del 'recitare' Daimoku davanti al Gohonzon? Ho scoperto una cosa: in realtà mi sembra di aver fede. Recito perché ho fede. Ma che significa? In poche parole: ho maturato uno sguardo prudente e disincantato su tutte le cose ma, contemporaneamente, ho fede! Penso che mi possa capitare di tutto e so di non essere immune da nascita, malattia, vecchiaia e morte, ma ho fede che tutto abbia un senso. Non esalto particolarmente le qualità della mia pratica e della recitazione del Daimoku, però ho fede in esso come in uno strumento di lavoro, in un amico, in un compagno di viaggio: limitato come tutte le cose e tuttavia affidabile, giustamente dosato per la mia vita, dotato di valore perché parte della mia storia. Un pò di tempo fa, una mattina, nel pieno delle consuete attività, ho avuto un momento di distacco interiore: ho percepito chiaramente che tutto quello che avevo intorno - strutture architettoniche, persone, eventi esterni ed eventi interiori, pensieri, emozioni - tutto ciò era ed è come una scena teatrale, un set cinematografico, una maschera, una finzione, un allestimento transitorio e in costante cambiamento. Ma sotto il 'palco' della vita esteriore, dietro la scena, ho sentito che c'era e c'è un livello profondo, unitario, significativo, completo in sé, non-transitorio, ulteriore. La presenza di questo livello profondo rende l'altro livello - quello superficiale della scena 'teatrale' - degno di comprensione, di amore. Recitare Nam Myoho Renge Kyo è parte della recita della vita, ne condivide la limitazione, la transitorietà. Tuttavia non posso dire che sia soltanto questo: proprio nella consapevolezza del suo limite, accettandolo interamente e non pretendendo nulla, mi sembra di amarlo, di rispettarlo, di poter considerare in esso l'esistenza di quel livello profondo e significativo di cui parlavo prima. E' forse questa la meditazione? Questo percepire contemporaneamente - per così dire - il transitorio e l'eterno, la limitazione e l'infinito, l'inutilità e il valore, è forse proprio 'kanjin', 'osservare la propria mente'?