martedì, dicembre 27, 2005

Unità e diversità.


Secondo me, in una scelta come quella religiosa, non si può prescindere in ogni caso dall'individuo, né si può pretendere che l'individuo si uniformi e scelga secondo i valori del gruppo, fossero anche questi ultimi i valori più nobili e altruistici: questo perché il campo religioso dovrebbe idealmente essere l'espressione veritiera dell'intimo di ognuno, dove ogni etica esterna e comunitaria è comunque una sovrastruttura rispetto alla reale crescita coscienziale dell'individuo. Naturalmente non sto dicendo che il comportamento sociale non sia importante e non sia esso stesso una componente della vita e perfino dell'individualità: il buddhismo, infatti, ci insegna che la vita è relazione. Però l'immagine più bella della struttura profonda dell'Universo, forse addirittura dell'Illuminazione, è prefigurata nel concetto di Itai Doshin: l'unità nella diversità, la fusione onnicomprensiva che contiene lo sviluppo delle singole individualità, l'armonia fondamentale nella differenziazione, l'essere fusi-ma-non-confusi, uniti ma non massificati, insomma il prisma dalle mille sfaccettature, ognuna di esse essenziale all'interezza del tutto. Anzi, dovrebbe essere così: che quanto più si estende la propria capacità di Illuminazione, la conoscenza di sé e del Sé, tanto più le componenti dell'individuo - anche quelle 'personalistiche', quelle psichiche, così come quelle sociali, quelle concrete, fisiche, situazionali - si integrino nell'esprimere l'armonia raggiunta. Da dove partire? Sempre dalle 'cause interne', cioè dall'intimo, cioè dalla libera presa di coscienza individuale (non sociale o moralistica). Si parte da una decisione indipendente, da un 'alzarsi da soli'. Quali sono i benefici? Essi sono essenzialmente legati alla manifestazione in noi dei Tre Corpi del Buddha: il Dharmakaya, il Corpo della Legge, che ci dà una sintonia con l'aspetto mistico, profondo, dell'esistenza; il Sambhogakaya, che porta l'armonia sul piano interiore, psichico; il Nirmanakaya, la manifestazione concreta e visibile, 'fisica', sociale, 'terrestre'. In un certo senso questi benefici sono anche le prove della validità del proprio percorso, e possono coincidere con le famose 'tre prove': la dottrinaria, la teorica e la concreta. Perché Nichiren considera la prova concreta come la più importante? Sembra una contraddizione, perché la prova concreta è anche la più 'esteriore', quindi apparentemente la meno essenziale; però bisogna considerare che il mondo esterno è proprio la nostra 'cartina di tornasole', il banco di prova, il luogo in cui ci scontriamo con la diversità, con le avversità, con il non-io, con l'altro-da-noi. Poiché il mondo esterno è inoltre - per legge karmica - lo specchio delle nostre contraddizioni interne, un miglioramento su questo piano ci da un'indicazione importante sulla nostra condizione interiore. Se anche ritenessimo di aver 'capito tutto', di essere degli Illuminati, dei Santi o dei Bodhisattva, ma non riuscissimo a rapportarci positivamente con l'ambiente esterno - naturale o sociale - o anche con il nostro stesso corpo fisico, dovremmo comunque rimeditare la nostra posizione. Se non lo facessimo con umiltà ed attenzione la vita e la legge karmica, comunque, ci costringerebbero prima o poi a farlo.

Propagazione.



A mio parere esiste una sfumatura di significato differente, anche molto differente, fra le parole 'propagazione' e 'propaganda'. Mi sembra che il problema delle organizzazioni religiose stia in gran parte qui: aver frainteso questo significato, aver confuso la propagazione con la propaganda. La propagazione, mi piace immaginare, è come quella di un'onda sonora, di un diapason. Il diapason coglie una vibrazione, ne risuona e, per ciò stesso, la propaga, la diffonde. Nel mondo dell'Illuminazione di cui parla il buddismo dovrebbe essere lo stesso: vibrare su una certa lunghezza d'onda. Se lo si fa davvero, è naturale che si diffonda nell'ambiente intorno l'emanazione del proprio 'stato vitale'. Ma non si tratta di uno 'stato vitale' tipo 'fitness', uno star bene di tipo salutista. Si tratterebbe, invece, di una 'sintonia' con il Gohonzon, cioè - appunto - con il mondo d'Illuminazione, con la parte profonda dell'esistenza, con il Senso, con la Vera Entità, con la Consapevolezza, con Nam-Myoho-Renge-Kyo (non soltanto la mera ripetizione, ma il significato). Se la vibrazione è quella 'giusta', è naturale che la nostra 'pratica', cioè il nostro cammino evolutivo, costituisca un richiamo, un messaggio anche per gli altri. Se accendiamo una fiamma, per quanto piccola essa sia, anche una fiammella, essa rischiara l'oscurità intorno. E' nella natura della luce farlo. Non credo che la luce debba preoccuparsi di diffondere la luce. Se è luce... diffonde! In un modo o nell'altro. Tutt'al più ci si può preoccupare di accendere davvero la fiammella, di ingenerare un processo di combustione reale (che bruci il karma, cioè i nostri limiti) e non soltanto immaginario. Cioè di lavorare davvero su sé stessi (non sugli altri...). Propaganda, invece, significa 'vendere' qualcosa. Significa prospettare soluzioni precostituite, indurre bisogni, sensi di colpa, comportamenti. Tutto, però, si risolve nello smercio di un prodotto, di un 'oggetto', quindi - tutto sommato - di qualcosa di esterno all'individuo, talvolta addirittura di estraneo. Può capitare di convincersi della bontà di un prodotto al punto da desiderare di diffonderne l'uso, di estenderne la commerciabilità, l'emergenza, il gradimento collettivo rispetto ad altri prodotti consimili. Si può essere anche molto sinceri in questo. Però si sta solo smerciando qualcosa: in ambito spirituale il cambiamento non riguarda il 'cosa', forse neanche il 'come'. Non è la tecnica che può. Nel migliore dei casi la tecnica rappresenta un aiuto, un supporto, per una rivoluzione che, comunque, bisogna compiere dentro di sé e 'alzandosi da soli'. Si può propagandare l'Illuminazione come se fosse un oggetto, un ulteriore prodotto della nostra società dei consumi, di qualche multinazionale? Secondo me no. Chi lo fa, anche con le migliori intenzioni, è destinato a fallire: il suo 'prodotto' costituisce quasi per definizione una sovrastruttura che, presto o tardi, risulterà oppressiva, ingombrante, superata o superabile da un nuovo ritrovato tecnico. La propagazione è diversa. Forse prescinde dal metodo e arriva subito all'essere, alla realtà interiore, a ciò che c'è di eterno dentro. Mi sembra molto giusta la locuzione 'da cuore a cuore'. Si propaga la luce, non il modo in cui si è acceso lo stoppino, che può anche variare. La luce è la rivelazione, il fatto che esista, che sia possibile, che non sia una vana fantasticheria. Se nella mia vita realizzo anche una piccola parte di luce, lo faccio anche per gli altri, ciò avrà un'effetto anche sugli altri. Perché siamo tutti collegati e perché è quello che tutti - in modo più o meno consapevole - cerchiamo: 'bodhicitta', il 'pensiero dell'illuminazione', l'unico 'vero' e fondamentale desiderio. La verità non ha bisogno di alfieri, di difensori, di combattenti. Si propaga da sé, perchè tutti la percepiscono e la cercano. Un piccolo fiammifero, quindi, può generare un grande incendio, quello di una foresta. Accendere, dunque, la propria luce: questa è l'essenza. Si diffonderà. Questo non significa essere dei solitari, non voler partecipare isolandosi sulla montagna. E' normale e auspicabile interagire, cercare di capirsi, di aiutarsi, persino di organizzarsi. Però bisognerebbe organizzarsi e proporsi come organizzazione quasi chiedendone scusa, con levità, con la capacità di lasciar andare, di proporre ma sempre con la costante preoccupazione di non imporre e di non 'vendere' nulla. Come dice il Budda nel Sutra del Loto: "Questo è il mio pensiero costante..."

venerdì, dicembre 09, 2005

Morte ed eternità.


S'è detto più volte che quella sulla morte è l'unica vera grande inchiesta, alla radice di ogni impostazione filosofico-religiosa. Riflettendo sulla morte ci chiediamo, di rimando, che cos'è la vita, qual è il suo significato e se ne ha uno. Come praticanti, ci chiediamo quale sia la posizione del buddhismo sull'argomento, perché ci sembra a volte ambigua: sopravviviamo oppure no? Si parla anche nel buddhismo di 'eternità della vita', ma come potrebbe essere eterna se non ci fosse la continuità dell'identità individuale fra una rinascita e l'altra, se il karma fosse soltanto una valigia che cambia di mano? Che cosa sarebbe dunque eterno, il karma forse? Allora sarebbe meglio parlare di 'eternità del karma', non della vita. E se il karma - la legge di causa ed effetto - fosse eterno, quindi 'assoluto', come potrebbe essere possibile il suo superamento, scopo principale del buddhismo? E il Nirvana, è 'estinzione' come annullamento e negazione, oppure si tratta di uno stato di coscienza superiore, al di là del tempo e - quindi - della morte? Dal canto mio ho elaborato alcune risposte a partire dagli insegnamenti buddhisti. Non so quanto siano realmente sostenibili dal punto di vista dottrinario, ma a me 'tornano', cioè mi soddisfano. Poi, è chiaro che bisogna lasciare sempre la porta aperta al dubbio, alla possibilità di riformulare tutto. Secondo me un 'quid' che sopravvive e che non è identificabile con il solo karma esiste, e credo che si tratti di una identità più profonda di quella che la nostra autopercezione ci suggerisce normalmente. Ciò che comunemente chiamiamo 'noi stessi' è qualcosa di piuttosto superficiale, è la nostra 'persona'. Ricordiamo che il termine 'persona' è mutuato dal teatro greco e significa 'maschera'. Credo che essa sia il 'ruolo' che ricopriamo come attori in ogni singola vita, ma che viene abbandonato al momento della morte o poco dopo. Sicuramente la persona 'Maurizio' con cui attualmente mi identifico non sopravviverà alla morte: si tratta, come dice il buddismo, di un insieme di aggregati. Tuttavia credo che il karma, i ruoli, le parti, abbiano uno scopo: quello della crescita della coscienza individuale. Che cosa rimarrebbe se dimenticassimo tutto di noi stessi? Rimarrebbe la nostra coscienza, il nostro sentirci di esistere. L'identità dell'io, del 'piccolo io', si basa sulla memoria. Senza di essa l'io non avrebbe sostanzialità. Svanisce con la memoria e, quindi, alla morte del corpo. Esistono poi livelli di memoria più profondi, non legati al cervello fisico: il karma, l''ottava coscienza', l''inconscio'. Anch'essi sono destinati a sciogliersi, a risolversi. Dove? Nella 'nona coscienza', che non è un 'magazzino' e, al contempo, è il trait-d'union che rappresenta il senso di ogni esperienza e di ogni serie di esperienze. Senza la nona coscienza esisterebbe soltanto il meccanismo universale. L'ingranaggio. E basta. Con la nona coscienza esiste l'origine e lo scopo del meccanismo e la garanzia che ogni percorso, pur sfociando in una consapevolezza unitaria e totalizzante, conservi la storia e la dignità di ogni passo, di ogni fase e, quindi, la particolarità individuale.

martedì, dicembre 06, 2005

Osservazioni su mantra e daimoku.



Valutazioni personali sui mantra in generale e il daimoku in particolare:
1. la recitazione di un mantra e, comunque, la pratica di una tecnica meditativa, tendono ad allentare i vincoli con i quali l'io imprigiona la capacità percettiva e l'intuizione profonda. Il mono-tono del mantra favorisce un certo rilassamento, anche fisiologico, e una certa pacificazione mentale, permettendo l'emersione di contenuti di solito nascosti alla coscienza ordinaria. La situazione formale della recitazione assomiglia ad una condizione di 'deprivazione sensoriale', cioè non sono presenti particolari stimoli sensori e distrazioni e, quindi, il mondo esterno perde una parte della sua presa sull'esperienza vigile. Al contempo la vigilanza rimane - se non si cade in uno stato di sonno - e quindi l'osservazione tende a focalizzarsi sui contenuti interiori piuttosto che su quelli esteriori. Questo spiega l'emersione che talvolta si verifica anche di contenuti spiacevoli, di attacchi di panico o altro: venendo meno il controllo cosciente, viene fuori quello che c'è immediatamente sotto, nelle zone sub-coscienti, altrimenti nascosto o coperto per motivi difensivi o di 'rimozione'. Possono rendersi evidenti anche emozioni positive, ricordi, pensieri, qualche volta sogni ad occhi aperti oppure, se si va abbastanza nel profondo, piccole o grandi 'illuminazioni' nello stile dei Pratyekabuddha: cioè intuizioni più o meno parziali o ampie sulla natura del reale e su sé stessi.
2. Ogni tecnica meditativa e ogni mantra hanno un significato e privilegiano una particolare visione del mondo, del divino, dell'illuminazione: è come se si trattasse di farmaci diversi, di medicine differenti, con indicazioni e posologie specifiche. Qui rientriamo nel discorso sugli Upaya, gli 'espedienti', ripreso anche dal Buddha quale 'bravo medico' in grado di prescrivere la giusta medicina. Tenuto fermo quanto anzidetto sull'effetto fisiologico e psichico delle tecniche di meditazione in generale, dunque, dobbiamo anche tener conto del proposito e dell'effetto della singola tecnica per cercare di comprenderne il significato specifico. Il discorso sarebbe lungo, ma potremmo analizzare lo slancio devozionale del mantra "Hare Krishna", il desiderio di vedere oltre l'illusione delle forme implicito in "Om Mani Padme Hum", oppure l'affidamento al divino quali creature piccole e insufficienti espresso nel mantra esicastico cristiano "Kyrie Eleison". Nel nostro caso potremmo dire che "Nam Myoho Renge Kyo" indica la dedizione e la sintonia con la Legge Mistica e Misteriosa dell'Esistente come lo scopo stesso della vita, il più profondo, il più ampio, il più reintegrativo, quello alla base di tutti gli altri.
3. Secondo me non bisogna, recitando il Daimoku, cercare di avere un atteggiamento piuttosto che un altro al di là delle semplici regole di base: voglio dire che il mono-tono, la concentrazione sul mandala e l'immobilità della posizione a mani giunte - anche se imperfette e non osservate con estremo rigore - tendono comunque a produrre gli effetti accennati al punto 1. Non si tratta di effetti difficilissimi da raggiungere, tutti li abbiamo sperimentati. L'importante è accettare e osservare quanto accade: talvolta si è concentrati, talaltra distratti, annoiati, smaniosi, angosciati, duri, aperti, felici, illuminati, sereni e via dicendo. Tutto questo fa parte di 'Kanjin', l'osservazione di noi stessi proprio come siamo. Secondo me non dovremmo cercare di essere diversi o di seguire un modello ideale di recitazione. Se ci 'guardiamo allo specchio' non dovremmo interporre maschere.
4. Più difficile è recitare realizzando consapevolmente il 'significato' di Nam Myoho Renge Kyo, cioè la sintonia con il Mistero della Vita. Qui entriamo nel senso mistico vero e proprio della nostra tecnica, connesso con l'altro scopo di Kanjin: osservare sé stessi non soltanto per vedere il trambusto e l'alternarsi dei 'nove mondi' e delle 'otto coscienze', ma riuscire a scorgere il 'decimo mondo', la buddhità, e la 'nona coscienza', quella Amala, cioè l'Incontaminata. Il punto è che l'osservazione del 'piccolo io' dovrebbe permettere la sua purificazione, l'autoconoscenza e il distacco dalla mutevolezza dei 'cinque aggregati', dando la possibilità di scorgere il fondamento, eterno e immutabile, il Vero Io, il Sé. Normalmente invece ci si ferma ai primi effetti della tecnica e si viene attaccati dai 'demoni': cioè quanto emerge tende ad avere il sopravvento sulla qualità della pratica. Per esempio una paura, una rabbia o un desiderio di potere, cioè il 'mondo di animalità', di 'collera' o quello di 'avidità' venuti alla luce durante la recitazione vengono a colorarne l'intenzionalità, coprendo il vero significato di Nam Myoho Renge Kyo. E' per questo che il buddhismo deve poter viaggiare sui tre binari di pratica, fede e studio, così che il corpo, il cuore e la mente si sostengano e si bilancino l'un l'altro nel cammino evolutivo della conoscenza di sé e del Sé. E' per questo che è anche importante il confronto con gli altri, con il Sangha, la comunità di chi condivide gli stessi intenti o interessi. Da soli spesso si rischia di perdere l'obiettività della visione oppure si diventa unilaterali, come talvolta fanno gli auto-didatti.

Sadguru.


Nell'induismo - area religiosa e filosofica dove, direi per definizione, se ne sa parecchio sui Guru, sui Maestri spirituali - si dice che ne esistono di due tipi: Upaguru e Sadguru. 'Upa' significa in sanscrito 'verso', 'prossimo' ad una certa cosa. Dunque 'Upaguru' è prossimo al Guru, oppure conduce al Guru, ma non è propriamente il Guru stesso. Quest'ultimo è 'Sad-Guru', cioè il 'Vero Guru'(sad=sat=verità, essenza). Sebbene talvolta nell'induismo - in accordo con la dottrina dell'Avatara (l'incarnazione divina) - il Sadguru sia identificato con una persona, vi si dice abbastanza chiaramente che in realtà il Vero Guru è presente in ogni essere vivente, cioè è il Sé, Dio stesso, il Purusha, il Brahman. Upaguru sono tutti quei maestri che ci aiutano a trovare la strada e a riconoscere gli insegnamenti del Maestro Supremo. Talvolta Upaguru è la vita nei suoi eventi, talaltra può essere un insegnante, una guida in grado di ispirarci.
In linguaggio buddhista, riportando il concetto, possiamo dire che ogni maestro 'esterno' è un 'maestro provvisorio', un'immagine parziale del Maestro. Il Vero Maestro è il Buddha Eterno e Originario, che nella sua personalità 'storica' - Shakyamuni - è anch'egli incompleto, perché ci parla da fuori di noi. Possiamo e dobbiamo avvalerci di guide provvisorie, che ci sono molto utili fin quando non riusciamo da soli a prendere contatto con il Sé in noi. Ben vengano: dobbiamo rispettarle ed essere loro grati. Anche in psicologia è ben nota l'importanza (come anche i limiti e la pericolosità) del 'transfert' (il rapporto terapeuta-paziente, analogo a quello maestro-discepolo), evento considerato indispensabile per la riuscita della 'terapia'. Ma dobbiamo anche prendere coscienza che la funzione più alta delle guide e dei maestri è quella d'indicarci la Via verso il Sad-Dharma e il Sad-Guru, cioè per renderci capaci di diventare Sovrani, Maestri e Genitori di noi stessi.

Disattendere le aspettative.




Shakyamuni, dopo aver lasciato la sua reggia, cioè la visione limitante del mondo in cui era vissuto fino a quel momento, s'inoltrò nella foresta, nei villaggi, nel variegato disordine della vita, per cercare di scoprire il perché della sofferenza, per conoscere meglio sé stesso e la Legge che regola l'esistenza. Era un principe e agli occhi del re suo padre avrebbe dovuto essere il futuro sovrano, ma egli rifiutò di identificarsi in quel ruolo e smise di praticare lo stile di vita di corte in cui era nato e cresciuto. In breve tradì le aspettative che gli altri avevano su di lui. Nella sua ricerca incontrò dapprima due, tre Maestri. Ognuno di loro sembrava essere il detentore della Verità. Ognuno di essi si era spinto fino a vertici filosofici ed esperienziali mai raggiunti prima. Conoscevano la mente concettuale e ciò che va oltre la concettualizzazione, le regioni della forma e della non-forma. Siddharta studiò diligentemente le loro dottrine e si immerse negli stadi meditativi da loro indicati fino a diventare il migliore allievo in ognuna di quelle scuole. Però, ogni volta, ritenne di non aver trovato le risposte che cercava, di non aver veramente conosciuto sé stesso. Pertanto smise di praticare quelle discipline e continuò il pellegrinaggio interiore. Andò a vivere nella foresta insieme agli asceti. Condivise con loro l'idea che il maggior ostacolo alla comprensione fosse il corpo fisico con le sue limitazioni. Pertanto cercò insieme ai suoi compagni di dominare ogni istinto fisiologico, di fiaccare gli impulsi naturali, di far tacere ogni brama. Anche in quel caso il suo desiderio di conoscenza lo portò molto lontano e divenne pressocché un Maestro, un esempio per gli altri asceti. Quando decise che anche con quei sistemi non si poteva raggiungere ciò che cercava, partì dalla foresta e smise di praticare la mortificazione ascetica. I suoi compagni, che fino a quel momento lo avevano ammirato, pensarono che avesse disatteso e tradito il comune ideale. Secondo me Shakyamuni non tradì mai nulla, proseguì semplicemente una indagine che andava oltre tutte le concezioni e le tecniche della sua epoca. La sua vera pratica consisteva principalmente nel non fermarsi alle verità precostituite, nel cercare costantemente di aprire la sua vita al nuovo, all'ulteriore, alla conoscenza di sé e del Sé. Sia pure nel suo stile immaginifico e mitologico, penso che il Sutra del Loto dica una grande verità: che negli ultimi anni della sua vita il Buddha continuò a mettere tutto in discussione, compreso il suo stesso messaggio. Dichiarò che quanto era andato insegnando per quasi quarant'anni non era che un insieme di verità provvisorie, di punti-di-passaggio, di espedienti. Disse che la sua intenzione non era mai stata davvero compresa, e che non era comprensibile se non fra Buddha, cioè fra persone che vivevano e sentivano profondamente la sua stessa ricerca, il suo "volo continuo". Pertanto, con il Sutra del Loto, Shakyamuni disattese il suo stesso insegnamento - la sua forma esteriore - per cercare di indicare qualcosa di più profondo e vissuto, oltre ogni dottrina codificata. Anche Nichiren smise di praticare il buddhismo della sua epoca scandalizzando i contemporanei e, probabilmente, in tal modo dimostrò di aver compreso l'intenzione e la "vera pratica" di Shakyamuni. Il Daishonin disse infatti che quest'ultima non consisteva in nessuna tecnica o esperienza prestabilita, in nessuno degli espedienti del Buddha, piuttosto era definibile come "Nam Myoho Renge Kyo", cioè come una costante, incessante e libera dedizione alla ricerca della Legge Mistica e Misteriosa che sottende la manifestazione dell'Universo.

lunedì, dicembre 05, 2005

Vegetarianesimo.



Sono vegetariano da 30 anni. Ho cominciato a desiderare di non mangiare più carne che avevo 16-17 anni. L'idea era ispirata dai miei molteplici interessi riguardanti la spiritualità orientale, lo yoga, eccetera. Improvvisamente volli cambiare alimentazione e in famiglia nacque il putiferio: pensarono che sarei andato incontro a qualche grave carenza, che mi sarei ammalato. All'epoca, a livello di cultura comune, non si sapeva neanche bene cosa significasse la parola 'vegetariano', una cosa ignota, misteriosa. Mia madre mi portò - ancora oggi non so bene perché in quanto non era religiosa - da un medico che era anche un monaco cattolico, forse pensando che ero preda di una qualche forma di crisi mistica che solo un prete poteva riuscire ad arginare. Il dottore-monaco disse che mi capiva, sì, che anche lui amava tanto le bestie, ma sapeva che Dio ha messo a disposizione dell'uomo tutto della natura, animali, vegetali... Aggiunse - per rinforzare la sua argomentazione con un esempio concreto - che un agnellino è taaantobello e carino, gli si può voler bene, ma... quanto è buooonooo..! Ebbene, se anche potevo avere, in quel momento, dei dubbi sulla mia scelta, istantaneamente furono dissipati del tutto: nulla avrebbe potuto più farmi recedere dal mio proposito di diventare vegetariano! Avevo trovato un 'ichinen' (determinazione) incrollabile. Oggi, dopo tanti anni, sono molto felice della mia decisione, che ancora perdura e si rinnova di giorno in giorno. Mi sono trovato bene e ritengo che anche la mia salute ne abbia tratto giovamento. Soprattutto devo dire che per me non è stato e non è un sacrificio e non credo che sia giusto farsi violenza: se desiderassi mangiare della carne, probabilmente lo farei. Se mi reprimessi porterei con me un desiderio inappagato, qualcosa di irrisolto. Sono ben consapevole che la nostra, soprattutto in occidente, è una cultura carnivora da centinaia di anni: non è semplice tagliare le proprie radici, sradicarsi da abitudini che, probabilmente, sono sedimentate nell'inconscio della razza. Quando si reprime qualcosa, bisogna sapere che, in un modo o nell'altro, la natura si ribella, si 'vendica': quindi non consiglio a nessuno di diventare vegetariano se non è ben sicuro di sentirsi bene nella sua scelta. Secondo il mio parere, però, una riduzione del consumo di prodotti animali fa comunque bene all'organismo. Personalmente, infine, non sarei capace di uccidere degli animali per mangiarli, né potrei sopportare di vederne le sofferenze, anche se inflitte loro da altri: questo rimane, ancora oggi, il motivo principale del mio vegetarianesimo. Tuttavia sono consapevole che anche i vegetali soffrono, magari ad un livello diverso degli animali: si tratta di organismi più semplici e, comunque, concretamente, un... pomodoro riesco ancora a coglierlo. So che respirando o camminando uccido milioni di batteri. So che se compro delle scarpe di pelle, quella pelle è di animali uccisi e, quindi, partecipo anch'io in qualche modo alla cultura del mattatoio. Non posso evitare completamente le contraddizioni. Credo che l'importante sia che ognuno cerchi di avvicinarsi quanto più possibile a ciò che ritiene giusto per sé, interrogandosi sempre, di momento in momento, ed essendo sempre pronto a cambiare. Al contempo non mi sembra il caso di giudicare gli altri, o di pensare che essi debbano comportarsi secondo i nostri parametri personali. Ognuno di noi è qui, su questo piano di esistenza, per sperimentare con la propria vita e per imparare.

giovedì, novembre 24, 2005

Dio e buddhismo.


Naturalmente sulle questioni che riguardano l'essenza della vita, sul divino, ognuno ha un'idea personale che collima con la sua sensibilità, evoluzione, intuizione, logica, eccetera. Sospetto che anche all'interno delle singole religioni - che rappresentano delle risposte 'collettive' alle grandi domande - ci sia una grande varietà di punti di vista individuali. Considero ciò un bene, perché ognuno deve potersi dare una risposta da solo su questi temi così importanti, e per farlo deve scavarsi dentro. I punti di vista sulla Realtà Ultima sono infiniti, perché questa è un "Sutra dagli infiniti significati", e ognuno elabora quello che gli serve. Sono d'accordo con chi dice che esistono tante religioni quanti sono gli individui, soprattutto quelli che si fanno domande e non accettano passivamentele risposte già pronte.
Il concetto di Dio si riferisce generalmente ad un aspetto 'personale' del divino, per lo più antropomorfo, cioè a somiglianza dell'uomo. Come se il piano divino fosse uno specchio e l'uomo, guardandovi dentro, vedesse sé stesso; quindi come se, in un certo senso, operasse una 'proiezione' di sé, del suo carattere, della sua cultura e anche dei suoi limiti. Tuttavia, pur ritirando la proiezione, credo che comunque rimanga qualcosa, una 'superficie riflettente' che è l'essenza della vita stessa. Molte religioni, soprattutto orientali, non hanno voluto speculare sulle caratteristiche di questo 'Qualcosa'. Per esempio il Taoismo. Anche il Buddhismo. Però hanno comunque dato un nome all'essenza percepita, indicandola parzialmente: Tao, cioè la Via, Dharma, la Legge. Le Upanishad usano spesso il termine 'Tat', cioè... 'Quello', rimarcandone così la non-definibilità. Forse sembrerà strano, ma perfino certe frange del misticismo ebraico abbandonano la 'personalizzazione' di Dio quando intendono indicare l'essenza più alta, profonda, nascosta, riferendosi ad essa come 'Esistenza negativa', cioè cui ci si può riferire solo con la negazione di quanto la mente riesce a concettualizzare. Per ciò che riguarda il famoso ateismo buddhista, non sono per niente d'accordo: non capisco come si possa anche solo affermare. Il Buddhismo, originario dell'India, non ha mai negato l'esistenza degli dei di quella cultura, assimilandoli pienamente. Al punto che persino nel Gohonzon giapponese abbiamo Bonten, che è Brahma. Chi è Brahma? Il Creatore. Nichiren Daishonin credeva negli dei indù e anche nelle divinità nipponiche, come Amaterasu - dea della Luce - e via dicendo. Se il Buddhismo fosse nato in occidente, oppure se fosse stato qui praticato già da centinaia di anni, probabilmente avremmo un oggetto di culto contenente il Dio della Bibbia, Gesù, Maria e qualche Santo. La rivoluzione del Buddha non sta nella negazione della divinità, ma nel riconoscere una Legge Mistica, misteriosa e imperscrutabile, di cui gli 'dei-persona' non sono che aspetti. Questa Legge più che impersonale, secondo me, sarebbe meglio definibile come sovra-personale. Stando al Sutra del Loto e alle filosofie derivate, poi, non possiamo definirla 'insenziente', perché essa sembra identificarsi con il Buddha Eterno, cioè con una sorta di Coscienza Cosmica. Sicuramente siamo lontani dal concetto di Dio come ci è stato proposto dalla nostra cultura, ma possono esserci anche delle affinità. Sicuramente ci sarebbe molto ancora da discuterne, ma concludo con un brano di Daisaku Ikeda che ho avuto la gradita sorpresa di leggere nel suo libro di dialoghi con Gorbaciov: "Ma l'uomo non può comprendere il senso della sua vita se prima non ha compreso il significato di Dio. Il senso di qualsiasi religione è ricordare all'uomo che esiste qualcosa che va al di là della sua vita terrena, che esiste unità fra la vita e la morte. Proprio i tormenti della coscienza ricordano all'uomo che esiste l'Eternità, un valore ben più alto e prezioso dell'effimero interesse egoistico. (Da "Le nostre vite si incontrano all'orizzonte" - Esperia, pag. 101). Cito anche un altro passo (stesso libro, stessa pagina): "Ritengo molto difficile che la morale disgiunta dalla religione possa esprimersi compiutamente. La morale senza una religione che spieghi il ruolo dell'uomo nell'universo è come un albero che non affonda le sue radici nella terra. In questo caso io attribuisco alla parola 'religione' un ampio significato, che non è legato ad una particolare confessione. La si può considerare un nucleo di valori universali che consentono di distinguere il bene dal male."
Non per nulla Ikeda è un maestro. E un maestro di pace.

mercoledì, novembre 23, 2005

Distinzioni.




Sembra che le distinzioni polari fra alto e basso, Cielo e Terra e simili, siano più antiche e profonde delle elaborazioni di certe religioni che vedono una netta separazione fra gli opposti, di solito prefigurati come bene e male. Per citare un esempio vicino, il termine utilizzato nel buddhismo di 'Illuminazione' si riferisce al sole e agli astri, mentre tradizionalmente l'oscurità è terrestre o sotterranea. Anche 'Risveglio' allude all'aprire gli occhi (luce, sole) e sollevarsi (cielo, sole) da una posizione di raccoglimento, riposo, sonno, possibile soltanto abbandonando il corpo al suolo (terra). Naturalmente mi riferisco a questi concetti nel senso simbolico, analogico, non necessariamente per come sono stati integrati nelle varie religioni. E' molto interessante, comunque, riscontrarne la presenza in tutte le culture antiche, anche se con gradazioni e modalità differenti. Una delle più belle e profonde elaborazioni di queste simbologie è quella taoista, con lo yin-yang e il Tao, quest'ultimo integrazione e trascendimento delle opposizioni polari. Anche il buddhismo, particolarmente quello Mahayana, non propone una separazione fra i termini delle opposizioni polari, ma una loro fusione, un equilibrio. Così il Buddha non esaspera la tendenza ascetica, ma trova una mediazione con quella mondana. La divinità nel senso buddhista, se così si può dire, è più simile ad un Assoluto, presente sia in Cielo che in Terra e in ogni manifestazione della vita.

Ascesi.


Credo che qualsiasi pratica religiosa o filosofica che si rispetti dovrebbe portare ad una evoluzione dell'atteggiamento e della visione. Questa evoluzione, almeno dal punto di vista del linguaggio e della simbologia del profondo, può essere connessa con una ascesa, un andare verso l'alto, un disgrossare, un raffinare, un ampliare. Questo perché, direi archetipicamente, ogni avanzamento spirituale può essere collegato ad un innalzamento verticale, ad un avvicinamento a ciò-che-sta-in-alto, al Cielo, e ad un distacco dall'elemento terrestre. Forse perché l'uomo stesso fonda la sua particolarità evolutiva sul raggiungimento della posizione eretta, sul farsi tramite, asse del mondo, fra la dimensione materica, misurabile, tangibile della Terra e quella immateriale, inafferrabile, non misurabile, del Cielo. Avendo definito i desideri come attaccamenti, cioè come legami con ciò che è inferiore, insomma come zavorra, siamo portati a considerare che una vera elevazione debba poter recidere questi legami: d'altra parte notiamo come, di solito, gli asceti, coloro che risalgono la via dello sviluppo interiore e il fiume della vita, tendono a lasciarsi dietro volontariamente ciò che abbassa, che distrae, che tira indietro, ciò che è forza gravitazionale. Così, ad esempio, in India, nell'antichità, c'erano diversi gradi dell'abbandono della dimensione terrestre ed esteriore: un uomo, dopo le prime fasi di crescita e apprendimento (brahmacarya), formava una famiglia e diventava padre (grihastha), con tutte le responsabilità connesse. Dopo di ciò, sentendo un richiamo interiore, poteva ritirarsi nella foresta o in una qualche forma di isolamento dalla vita familiare e comunitaria (vanaprastha), pur conservando parzialmente alcuni dei rapporti precedenti, per esempio con la moglie o con altri. Infine, procedendo in questo cammino ascetico del distacco, diveniva un mendicante errante, solitario, senza più legami di alcun genere (sannyasa). Possiamo notare come Shakyamuni abbia percorso un cammino abbastanza tradizionale, da questo punto di vista, per le concezioni della società brahmanica. Tuttavia mi sembra che ci siano alcune differenze sostanziali. Esse sono soprattutto contenute in quell'episodio nel quale - asceta della foresta - decide di accettare del cibo da una fanciulla, di nutrirsi. In quel momento egli è un traditore delle aspettative della società brahmanica! Fino a quel momento no: pur contravvenendo ai desideri paterni e rinunciando al suo lignaggio regale, in realtà stava seguendo una via socialmente codificata e ammissibile, anzi rispettabile. Accettare del cibo in quella fase, oltretutto da una donna, significava invece rinunciare al cammino di elevazione, significava diventare un paria, un fuori-schema. Non aveva senso: che intendeva fare, ridare spazio ai desideri terreni, agli appagamenti del corpo? Era stato vinto dal demone? Tradiva la sua missione ormai conclamata? Ridiventava preda dei 'klesha'? Quindi, direi, la vera novità del Buddha non è tanto l'abbandono della casa paterna, ma l'abbandono dell'ascesi. E' la Via di Mezzo. Anche il suo successivo essere mendicante è completamente diverso dal consueto 'sannyasin': in un certo qual modo egli rimane nel mondo, conduce una vita di relazione in situazioni diverse e articolate, dialoga, viaggia non per isolarsi, quanto per incontrare. E lo fa insieme ad una sempre più vasta comunità di compagni di viaggio. Anzi, il suo atteggiamento viene aspramente criticato dal suo 'Giuda' personale, Devadatta, che ne considera i comportamenti come troppo poco rigorosi. Proprio come il Giuda evangelico, che non sopporta di veder sprecare costosi unguenti per Gesù. Il Buddha contravviene alle regole brahmaniche proprio come Gesù, che mangia in casa dei pubblicani, parla con le donne e i bambini, con le prostitute, talvolta mangia carne e non osserva il Sabbath.
Forse l'ascesi vera e propria oggi non è proponibile, ma non dovrebbe esserci almeno un freno agli attaccamenti? Inoltre andrebbero sottolineate le contraddizioni consumistiche della nostra cultura che sembra vedere nella soddisfazione senza limiti delle esigenze materiali la vera felicità, la vera libertà. Un mio carissimo amico diceva che ogni lavoratore, ogni operatore, ha diritto alla sua mercede, ma non alla sua... Mercedes! Sottolineo nuovamente, però, che nel buddhismo non mi sembra debba esserci un accantonamento del corpo e dei desideri, e che il benessere debba esserci a tutti i livelli, senza rifiuti né sensi di colpa: la nostra esistenza è un tutto completo, tutto è rispettabile. Certo, questo non deve risolversi in cecità e sfruttamento e sicuramente non solo i buddhisti ma l'intero nostro mondo dovrebbe saper trovare una soluzione a problemi sempre più pressanti: deve sicuramente prodursi una 'rivoluzione culturale'. Anzi, mi sta bene il termine buddhista di rivoluzione umana coniato dal presidente della Soka Gakkai, Daisaku Ikeda, in cui bisogna tener conto del rigore come della compassione e dare valore a tutte le motivazioni dell'uomo. In questo termine è contenuto anche il concetto che ognuno di noi, in prima persona, alzandosi da solo, debba individualmente conoscere sé stesso con tutte le sue contraddizioni, cercando simultaneamente di agire e di muoversi in questo mondo, collaborando con gli altri e con la vita senza isolarsi in un dogmatico - e probabilmente sterile - ascetismo.

Benefici e demoni.


Il beneficio supremo, lo scopo della pratica buddhista, è la famosa Illuminazione che potremmo ancora una volta ipotizzare come uno stato di integrazione con la vita, di fusione degli opposti, di compenetrazione consapevole microcosmo-macrocosmo, eccetera. Credo che il superamento delle illusioni e il raggiungimento dell'Illuminazione siano, in fondo, contemporanei aspetti di un'unica medaglia. Come tutte le aspirazioni umane, però, anche questo eroico traguardo può essere occultato da fraintendimenti, visioni diverse e contraddittorie, meccanismi condizionanti. Per esempio, recitando Daimoku per ore - come può accadere utilizzando anche altre tecniche meditative - è possibile che si entri in uno stato euforico, di esaltazione. Una litania mantrica ripetuta per molto tempo, invece che accrescere la capacità di osservare la propria mente e conoscere meglio sé stessi, potrebbe condurre ad una sorta di auto-ipnosi: il mantra è una medicina e, come tutti i farmaci, può avere le sue controindicazioni. Lo dice anche Nichiren quando scrive che se si recita Nam Myoho Renge Kyo credendo che la Legge Mistica sia qualcosa di esteriore, quindi senza scavarsi dentro, si sta seguendo soltanto un 'insegnamento provvisorio' oppure una 'dolorosa austerità'. Come accorgersi che non si sta cadendo in uno di questi stati illusori? Qui torna comoda la 'prova concreta' del cosiddetto beneficio: se la nostra vita - grazie alla pratica buddhista - mostra un miglioramento nei rapporti con gli altri, significa che non ci stiamo chiudendo, che stiamo diventando più benevolenti, che stiamo superando le nostre preclusioni. Se diveniamo più attivi nei settori concreti della vita, significa che non ci stiamo isolando dal mondo. Se riusciamo ad affrontare difficoltà che prima ci avrebbero schiacciato, significa che stiamo crescendo in forza, determinazione, speranza. Se accade qualcosa di imprevisto che ci aiuta in maniera inaspettata e miracolosa, significa che riusciamo ad attivare gli elementi mistici dell'esistenza e a migliorare il nostro karma oscuro. Se questi riscontri non ci fossero, dovremmo interrogarci: credendo di seguire il cammino della Liberazione, ci stiamo forse chiudendo, entrando nell'arroganza, isolando, esaltando? Guardando cosa accade concretamente nella nostra vita di tutti i giorni abbiamo una sorta di cartina di tornasole dell'equilibrio interiore raggiunto. D'altro canto, come è accaduto a Shakyamuni, andando a fondo in sé stessi, accade anche di affrontare ostacoli, forze 'demoniache', 'fantasmi della mente'. Anzi, è giocoforza incontrare delle resistenze al nostro sviluppo: il percorso dell'Illuminazione è individuale ed è sempre originale, nel senso che si segue sempre - nell'ambito della propria vita - un sentiero non tracciato, come fossimo esploratori e ci facessimo largo nella foresta. Anche facendo psicanalisi si incontrano resistenze: la struttura profonda della mente e dell'io, gli attaccamenti, reagiscono, chiudono, mascherano, addirittura aggrediscono. Tanto più nel buddhismo, dove si vuole rivoluzionare l'intera vita e non si ritiene fondata la distinzione fra interno ed esterno, individuo e ambiente: le citate resistenze si manifesteranno quindi non soltanto nella psiche, ma anche nelle situazioni contingenti, negli eventi cosiddetti 'oggettivi', nelle persone incontrate. Anche qui, comunque, praticando il buddhismo, sarà presente il beneficio di intravvedere un messaggio sottostante gli eventi negativi, la richiesta di cambiamento sottintesa, la possibilità di reintegrazioni più profonde e più vaste nell'ambito del nostro modo di essere e di rapportarci. Se non vedessimo il negativo, come potremmo trasmutarlo? E il negativo è sempre profondamente connaturato con il nostro karma, quindi non è mai per caso.

Nichiren Daishonin.


Nichiren parla di sé in modi molto differenziati, a seconda dell'interlocutore cui si rivolge, a seconda se stia scrivendo una lettera o un trattato e, presumibilmente, in accordo con i vari periodi della sua vita. Abbiamo, allora, un Nichiren che - forse - si identifica con Jogyo, la 'guida dei Bodhisattva della Terra', oppure si sente il 'Devoto del Sutra del Loto' in attesa della manifestazione dello stesso Jogyo. Altre volte egli si riconosce come un discepolo appartenente ad uno dei gradi inferiori della via dello studio. Poi è lo Shramana del Giappone, oppure è ne è il Maestro, Sovrano e Genitore. Dice di essere una persona comune di casta inferiore, piccolo, brutto e di comprensione limitata. Afferma di essersi illuminato da solo, oppure di aver raggiunto la buddhità, ma prega l'interlocutore di tenere l'informazione segreta. Talvolta, invece, vorrebbe raggiungere finalmente l'illuminazione in un giorno futuro, e spera - oppure si dice certo - di incontrare Shakyamuni sul Picco dell'Aquila. In certi trattati si descrive metaforicamente come un saggio solitario, sereno e pieno di comprensione, oppure come un nobile ospite. Non sa quali siano le sue passate incarnazioni, ma pensa di aver assistito alla Cerimonia dell'Aria. Certe volte dubita di sé, non sa se la sua ricerca abbia colto nel segno, altre volte sente che non si è inventato nulla, che ciò che ha capito è più grande di lui, che lo trascende. Cita i Sutra e ricerca nei testi canonici del buddhismo per dimostrare il suo punto di vista, ma sarebbe disposto a cambiare opinione qualora qualcuno gliene argomentasse la ragione in modo convincente e fondato. E' felice nei momenti più difficili e disgraziati perché è sostenuto dalla fede, ma talvolta piange e si commuove pensando al suo destino, a quello dei suoi genitori, degli amici. Scrivendo lettere accorate e piene di affetto a volte identifica i suoi stessi discepoli - o comunque le persone che gli sono vicine e lo aiutano - con dei Buddha o Bodhisattva. Vede in essi Shakyamuni redivivo, oppure la reincarnazione di suo padre e di sua madre. Qualche volta dice ad altri che essi stessi sono la Torre Preziosa e, quindi, conseguentemente, dico io, l'incarnazione della Legge o del Buddha Originario. Chi è Nichiren? Sicuramente un uomo solo, un rivoluzionario, forse un sognatore che combatte con caparbietà contro i mulini a vento del suo tempo. La sua forza è la fede in ciò che ritiene di aver trovato negli insegnamenti buddhisti. Egli stesso frequentemente non sa bene perché deve avere il ruolo che ha, e allora trova conferme nei trattati e nei Sutra: è convinto che la sua epoca abbia in sé un'urgenza, un bisogno di rinnovamento, di un recupero, e vede solo in sé stesso colui che possiede la chiave. Questo lo sconcerta un pò: non doveva apparire il Bodhisattva Jogyo? Invece egli è solo. Allora forse è lui stesso Jogyo! Però è strano, egli osserva, perché la sua pratica è imperfetta, discontinua, la sua voce è flebile. Però, si dice, poiché sono perseguitato a causa del Sutra del Loto, io dedico ad esso la mia intera vita. Quindi lo vivo. Quindi lo incarno, lo rappresento. E lo fanno anche i miei discepoli. Come vogliamo considerare quest'uomo sofferente e caparbio, felice della sua fede eppure in costante rielaborazione delle sue convinzioni? Per sua stessa ammissione non ha virtù eroiche particolari, al di là del coraggio di affrontare l'opposizione alle sue idee. Non ha poteri o veggenze speciali. Non vede nel passato o nel futuro, ma riflette e deduce. In breve è un uomo normale ma, per certi versi, è un Maestro: ha una visione ideale, indica qualcosa che ancor oggi - pur essendo stata rielaborata più volte durante i sette secoli che ci separano da lui - sembra avere un senso profondo. Francamente non sembra un Bodhisattva o un Buddha per come normalmente vengono rappresentati. Non ha il sorriso serafico e l'impassibilità enigmatica e super-umana delle statue buddiste. Appare perfino un pò fissato, caparbio, un Savonarola alla maniera giapponese. Eppure la sua fissità potrebbe essere interpretata come l'ostinazione di chi propone l'essenziale, oltre i riti, oltre le speculazioni e il potere delle religioni: la semplice dedizione alla Legge Universale e ad un Buddha che non è soltanto Shakyamuni, ma è coesistente con la Vita...
In definitiva, poi, com'è davvero un Buddha? Come agisce, come si comporta e respira? Forse potrebbe essere una persona insospettata, il nostro vicino, senza i caratteri fantastici e immaginifici dell'idealità. E un Buddha, se lo è davvero, non è forse - per ciò stesso - il Buddha Originario? Non si identifica in lui, se non altro perché ha raggiunto quello stato di coscienza dove tutto è Uno e dove la Legge Universale si fonde con la vita individuale?

lunedì, novembre 14, 2005

Il viaggio.



Viaggiando si esce fuori dalla propria condizione abituale, si cambiano panorami e situazioni. Ogni ricerca è anche così. Possono esservi disagi, difficoltà, strade più o meno ostacolate. Talvolta si può rimpiangere quanto s’è lasciato, ma andando avanti ci si avvicina alla meta. Esiste, poi, la meta? C’è un luogo dove la diversità esterna possa essere segnale della trasformazione interna? Certamente il viaggio, se vissuto pienamente, trasmuta: dobbiamo adattarci al mutamento delle condizioni che incontriamo, disporci all’osservazione, dobbiamo – per così dire – uscire da noi stessi per imparare. Quand’anche ritornassimo, dopo un certo tempo, al punto di partenza, quel punto non sarebbe più uguale a prima, soprattutto perché siamo mutati noi. Nel senso più alto proseguire nel cammino, sulla via, conduce oltre: usciamo dai quattro cattivi sentieri e sperimentiamo i nobili sentieri dell’Illuminazione. I percorsi inferiori naturalmente non vengono rifiutati, fanno sempre parte di noi, della crescita, dell’esperienza, del mondo in cui viviamo, degli altri, dell’esistente. Cambia soltanto la nostra percezione di essi. I cattivi sentieri, in definitiva, sono l’essenza stessa della compassione e delle Paramita, le pratiche del Bodhisattva. Senza cattivi sentieri la consapevolezza del Bodhisattva - e anche del Budda - non avrebbe fondamento. Forse un’importante differenza fra la buddità e l’illusione è che la prima riconosce il Samsara come interno a sé, parte di sé, la seconda è sicura che sia esterno. La prima lo abbraccia, offre ad esso una prospettiva evolutiva, un senso, e dunque gli assegna il giusto posto; la seconda – sia accettandolo che rifiutandolo - lo disconosce come parte di sé, non lo comprende e, quindi, ne è dominata.

Nuovo anno cinese.


Trovo il capodanno estremo-orientale molto equilibrato: non si basa soltanto sul ciclo solare, ma anche su quello lunare, in perfetta armonia yin-yang. Inoltre pone l’inizio dell’anno e anche della primavera a metà strada fra il solstizio invernale e l’equinozio primaverile, a partire dalla luna nuova più vicina a quel momento, e questo inizio si percepisce concretamente: qualcosa nell’aria, le prime gemme, un’apertura. La celebrazione del capodanno è connessa con il rinnovamento, linea di demarcazione fra passato e futuro e sintonia con il presente. Direi che il valore più importante legato all’inizio del nuovo anno coincide con il principio buddista di honnin-myo, “da adesso in poi”, cioè il principio della “vera causa”: rapportandosi con le profondità della vita la coscienza può operare un rinnovamento che prescinde dal passato e, in un certo qual modo, anche dal futuro, dando un nuovo impulso e una nuova direzione al ciclo karmico. Non sempre crediamo di poter cambiare qualcosa, tanto meno di poter rivoluzionare radicalmente la nostra esistenza. Troppo ‘buon senso’ ce lo impedisce, ma il buon senso si basa sul tempo, sul conosciuto. Il ciclo samsarico è il tempo, mentre l’Illuminazione costituisce un oltrepassamento di detto ciclo, una sfida impossibile e paradossale: quella di non limitarsi al meccanismo grigio della ripetizione, del reiterare, ma riuscire a concepire nuovi e più luminosi punti di vista, comportamenti, destini. Si tratta di libertà. La libertà di vivere nella limitazione e nell’incertezza senza esserne sopraffatti, con saggezza, conservando la purezza dell’energia vitale e scoprendo un’intima felicità. Quella che deriva dalla mistica consapevolezza del nostro vero io e dell’eternità della vita.