mercoledì, novembre 23, 2005

Ascesi.


Credo che qualsiasi pratica religiosa o filosofica che si rispetti dovrebbe portare ad una evoluzione dell'atteggiamento e della visione. Questa evoluzione, almeno dal punto di vista del linguaggio e della simbologia del profondo, può essere connessa con una ascesa, un andare verso l'alto, un disgrossare, un raffinare, un ampliare. Questo perché, direi archetipicamente, ogni avanzamento spirituale può essere collegato ad un innalzamento verticale, ad un avvicinamento a ciò-che-sta-in-alto, al Cielo, e ad un distacco dall'elemento terrestre. Forse perché l'uomo stesso fonda la sua particolarità evolutiva sul raggiungimento della posizione eretta, sul farsi tramite, asse del mondo, fra la dimensione materica, misurabile, tangibile della Terra e quella immateriale, inafferrabile, non misurabile, del Cielo. Avendo definito i desideri come attaccamenti, cioè come legami con ciò che è inferiore, insomma come zavorra, siamo portati a considerare che una vera elevazione debba poter recidere questi legami: d'altra parte notiamo come, di solito, gli asceti, coloro che risalgono la via dello sviluppo interiore e il fiume della vita, tendono a lasciarsi dietro volontariamente ciò che abbassa, che distrae, che tira indietro, ciò che è forza gravitazionale. Così, ad esempio, in India, nell'antichità, c'erano diversi gradi dell'abbandono della dimensione terrestre ed esteriore: un uomo, dopo le prime fasi di crescita e apprendimento (brahmacarya), formava una famiglia e diventava padre (grihastha), con tutte le responsabilità connesse. Dopo di ciò, sentendo un richiamo interiore, poteva ritirarsi nella foresta o in una qualche forma di isolamento dalla vita familiare e comunitaria (vanaprastha), pur conservando parzialmente alcuni dei rapporti precedenti, per esempio con la moglie o con altri. Infine, procedendo in questo cammino ascetico del distacco, diveniva un mendicante errante, solitario, senza più legami di alcun genere (sannyasa). Possiamo notare come Shakyamuni abbia percorso un cammino abbastanza tradizionale, da questo punto di vista, per le concezioni della società brahmanica. Tuttavia mi sembra che ci siano alcune differenze sostanziali. Esse sono soprattutto contenute in quell'episodio nel quale - asceta della foresta - decide di accettare del cibo da una fanciulla, di nutrirsi. In quel momento egli è un traditore delle aspettative della società brahmanica! Fino a quel momento no: pur contravvenendo ai desideri paterni e rinunciando al suo lignaggio regale, in realtà stava seguendo una via socialmente codificata e ammissibile, anzi rispettabile. Accettare del cibo in quella fase, oltretutto da una donna, significava invece rinunciare al cammino di elevazione, significava diventare un paria, un fuori-schema. Non aveva senso: che intendeva fare, ridare spazio ai desideri terreni, agli appagamenti del corpo? Era stato vinto dal demone? Tradiva la sua missione ormai conclamata? Ridiventava preda dei 'klesha'? Quindi, direi, la vera novità del Buddha non è tanto l'abbandono della casa paterna, ma l'abbandono dell'ascesi. E' la Via di Mezzo. Anche il suo successivo essere mendicante è completamente diverso dal consueto 'sannyasin': in un certo qual modo egli rimane nel mondo, conduce una vita di relazione in situazioni diverse e articolate, dialoga, viaggia non per isolarsi, quanto per incontrare. E lo fa insieme ad una sempre più vasta comunità di compagni di viaggio. Anzi, il suo atteggiamento viene aspramente criticato dal suo 'Giuda' personale, Devadatta, che ne considera i comportamenti come troppo poco rigorosi. Proprio come il Giuda evangelico, che non sopporta di veder sprecare costosi unguenti per Gesù. Il Buddha contravviene alle regole brahmaniche proprio come Gesù, che mangia in casa dei pubblicani, parla con le donne e i bambini, con le prostitute, talvolta mangia carne e non osserva il Sabbath.
Forse l'ascesi vera e propria oggi non è proponibile, ma non dovrebbe esserci almeno un freno agli attaccamenti? Inoltre andrebbero sottolineate le contraddizioni consumistiche della nostra cultura che sembra vedere nella soddisfazione senza limiti delle esigenze materiali la vera felicità, la vera libertà. Un mio carissimo amico diceva che ogni lavoratore, ogni operatore, ha diritto alla sua mercede, ma non alla sua... Mercedes! Sottolineo nuovamente, però, che nel buddhismo non mi sembra debba esserci un accantonamento del corpo e dei desideri, e che il benessere debba esserci a tutti i livelli, senza rifiuti né sensi di colpa: la nostra esistenza è un tutto completo, tutto è rispettabile. Certo, questo non deve risolversi in cecità e sfruttamento e sicuramente non solo i buddhisti ma l'intero nostro mondo dovrebbe saper trovare una soluzione a problemi sempre più pressanti: deve sicuramente prodursi una 'rivoluzione culturale'. Anzi, mi sta bene il termine buddhista di rivoluzione umana coniato dal presidente della Soka Gakkai, Daisaku Ikeda, in cui bisogna tener conto del rigore come della compassione e dare valore a tutte le motivazioni dell'uomo. In questo termine è contenuto anche il concetto che ognuno di noi, in prima persona, alzandosi da solo, debba individualmente conoscere sé stesso con tutte le sue contraddizioni, cercando simultaneamente di agire e di muoversi in questo mondo, collaborando con gli altri e con la vita senza isolarsi in un dogmatico - e probabilmente sterile - ascetismo.

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