lunedì, novembre 14, 2005

Il viaggio.



Viaggiando si esce fuori dalla propria condizione abituale, si cambiano panorami e situazioni. Ogni ricerca è anche così. Possono esservi disagi, difficoltà, strade più o meno ostacolate. Talvolta si può rimpiangere quanto s’è lasciato, ma andando avanti ci si avvicina alla meta. Esiste, poi, la meta? C’è un luogo dove la diversità esterna possa essere segnale della trasformazione interna? Certamente il viaggio, se vissuto pienamente, trasmuta: dobbiamo adattarci al mutamento delle condizioni che incontriamo, disporci all’osservazione, dobbiamo – per così dire – uscire da noi stessi per imparare. Quand’anche ritornassimo, dopo un certo tempo, al punto di partenza, quel punto non sarebbe più uguale a prima, soprattutto perché siamo mutati noi. Nel senso più alto proseguire nel cammino, sulla via, conduce oltre: usciamo dai quattro cattivi sentieri e sperimentiamo i nobili sentieri dell’Illuminazione. I percorsi inferiori naturalmente non vengono rifiutati, fanno sempre parte di noi, della crescita, dell’esperienza, del mondo in cui viviamo, degli altri, dell’esistente. Cambia soltanto la nostra percezione di essi. I cattivi sentieri, in definitiva, sono l’essenza stessa della compassione e delle Paramita, le pratiche del Bodhisattva. Senza cattivi sentieri la consapevolezza del Bodhisattva - e anche del Budda - non avrebbe fondamento. Forse un’importante differenza fra la buddità e l’illusione è che la prima riconosce il Samsara come interno a sé, parte di sé, la seconda è sicura che sia esterno. La prima lo abbraccia, offre ad esso una prospettiva evolutiva, un senso, e dunque gli assegna il giusto posto; la seconda – sia accettandolo che rifiutandolo - lo disconosce come parte di sé, non lo comprende e, quindi, ne è dominata.

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